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Sei anni dopo l’inaspettato Leone d’Oro vinto con l’opera prima Ti guardo, il venezuelano Lorenzo Vigas torna in Concorso alla Mostra di Venezia con La Caja, ultimo capitolo di una trilogia sulla paternità in America Latina che comprende anche il corto Los elefantes nunca olvidan e l’esordio già laureato al Lido.
La Caja è letteralmente una cassa di metallo in cui sono custoditi i resti, trovati in una fossa comune, del padre dell’adolescente Hatzin. Quando, in viaggio nel nord del Messico, incontra un uomo fisicamente somigliante al padre, si lascia travolgere da dubbi e speranze.
Come altri autori sudamericani, anche Vigas sente l’esigenza di leggere e interpretare la storia nazionale attraverso i racconti dei singoli, individuando nelle ferite e nelle contraddizioni del suo popolo quelle di un intero continente minato da conflitti irrisolti e pervaso da un’irrequietudine che travalica le generazioni.
L’esperienza collettiva è risondata con il diaframma di uno sguardo che lucidamente – e spericolatamente – sceglie di abbracciare l’allegoria, cercando di penetrare i drammi invisibili degli esseri umani. Vigas identifica nella paternità la questione decisiva per capire un malessere generale, anche alla luce di esperienze come peronismo e chavismo, con i loro leader carismatici ed egemoni, che rappresentano il sintomo massimo di un vuoto da riempire con surrogati di padre.
Un fantasma, dunque un’assenza, custodito all’interno, appunto, della caja, e che a un certo punto si manifesta come presenza: con un titolo che mette in campo la persistenza del lutto, l’evanescenza dei corpi, la materialità del dolore, La Caja sembra chiuso nel suo schema teorico, freddo nella misura in cui non appare interessato a costruire un dialogo fertile con lo spettatore.
La ricerca dell’ellissi si fa confusione, lo smarrimento devia verso il disorientamento, il teatro naturale di un paesaggio naturalmente arido appare la gabbia di una storia che frena fino a soffocare la possibilità di un’emozione. Più interessante sul piano della riflessione socio-culturale che su quello dell’esito canalizzato verso una volontà di sottrazione che diventa artefatta, resta un po’ chiuso nel suo pensiero.