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La caduta della casa degli Usher: Carla Gugino nei panni di Verna. Foto Eike Schroter/Netflix © 2023
Less is more, dicono gli americani. L’esortazione non deve essere arrivata alle orecchie di Mike Flanagan, a giudicare dal suo ultimo La caduta della casa degli Usher: otto episodi per Netflix, lontanamente ispirati al racconto di Edgar Allan Poe. Un lavoro così inclusivo da imbarcare di tutto: famiglie disfunzionali, dinasty, case farmaceutiche corrotte, patti col diavolo, gender fluid, piccole depravazioni borghesi, sincronie atemporali, monologhi scespiriani e spruzzatine di gotico. Oltre il postmoderno e i suoi postumi, nel gioco a somma zero dello streaming creativo.
Se Poe evoca quasi senza raccontare, costruendo una novella di pure atmosfere che Freud si era imprestato per spiegare cosa fosse il perturbante, Flanagan procede esattamente al contrario: racconta senza evocare. Nel farlo ci rivela, volontariamente oppure no, che cosa sia l’immaginario nell’epoca delle piattaforme, con il suo mantra sulle storie e quell’ossessione per i contenuti che pare dissimulare l’horror vacui dell’Occidente.
Presa così, nella cornice delle Mille e una notte di una civiltà delle immagini più affaristica che poietica, La caduta della casa degli Usher ha una validità dimostrativa.
Del racconto originario resistono i nomi di Roderick Usher, Auguste Dupin e LadyMadeline, una casa diroccata, fugaci apparizioni spettrali e nient’altro. Su questo nucleo primario la sceneggiatura lavora per innesti meccanici, accumulando archetipi frustri e rimandi disparati (le lotte intestine à la Succession, la Fidelio disco di kubrickiana memoria, la rivolta delle scimmie da laboratorio in un revival Planet of the Apes, il Joker e la truffa dell’ossicodone già raccontata dalla Poitras). Ammassa storie intingendole negli umori del tempo, spingendo il concetto di fluidità a tutte le latitudini.
La teoria del tutto dell’algoritmo ha come teorema la perfetta componibilità di ogni cosa, una logica dell’assemblaggio soverchiante rispetto a quella della coerenza. Flanagan stavolta se ne lascia irretire senza opporre resistenza. Può solo dichiararlo, utilizzando come portavoce il personaggio di Verna, la donna misteriosa interpretata da Carla Gugino che determinerà buona parte degli eventi nefasti della miniserie: “Amo le simmetrie”, dice. Esattamente come il simmetrico per antonomasia: il diavolo. Il separatore. Il diable. Il double. Il doppio. Se l’architettura discorsiva scelta dal regista di Salem privilegia la frontalità spaziale e l’orizzontalità temporale, è il campo-controcampo il metro registico del dominio del “doppio”: una concessione alla grammatica pigra della piattaforma certo, ma anche correlato visivo di quella reductio ad unum al cuore di questo show e del suo committente. Nell’alternanza tra due inquadrature più che contrapposizione sembra esserci ridondanza. I dialoghi (scritti maluccio) non producono effetti, mentre abbondano i monologhi, tra citazioni da Poe, da Shakespeare e pezzi originali sfiancanti. E il monologo non è la voce di chi si parla addosso?
Anche gli spettri non hanno una funzione terapeutica, come accadeva nei precedenti lavori di Flanagan, ma rispondono a una funzione illustrativa, personificazioni della colpa del protagonista. Il centro di tutto è Roderick (Bruce Greenwood). Da lui si dipana e a lui ritorna tutta la faccenda. Lui la voce narrante di Casa Husher, con l’espediente della confessione (altra forma del monologo) data al solerte e stereotipato personaggio (quasi) senza macchia del procuratore Dupin (Carl Lumbly). Senza che Roderick abbia però una reale complessità. D’altronde non può averla perché è egli stesso un doppio(ne). Se le metafore sono l’inutile orpello del passato analogico, è la didascalia la retorica predominante dello streaming. Tutto è palesato. Persino la natura del contratto a monte, perché nella Casa degli Usher come in quella di Netflix, i soldi sono le storie, le storie i soldi.
Così, ridotta all’osso, scartavetrandola (e a livello figurativo questa è una serie di pareti che vengono grattate, di muri presi a martellate, di edifici demoliti), la casa degli Usher è la scena primaria del peccato originale americano: un vendere l’anima al diavolo per un po’ di quattrini. E del debito che si dovrà pagare.
I tre atti di una tragedia biblica che si snodano lungo tre linee temporali, secondo un andamento a zig zag (passato remoto, prossimo e presente) scandente la struttura di ogni episodio. Le figure che vi compaiono sono funzioni narrative della scena primaria che si sdoppiano e si dislocano di continuo. I progenitori degli Usher, Roderick e Madeleine (Mary McDonnell), sono l’Adamo ed Eva che per avidità (quella patologia del desiderio che vuole tutto senza godersi niente) mangiano il frutto avvelenato dal tentatore. La progenie maledetta perirà, consumata non tanto dalle lotte intestine per l’approvazione del pater familias, anche potente ceo di una Big Pharma, ma dalla logica ineluttabile del contratto. Ancora: sta forse Flanagan lamentando il proprio destino autoriale alla mercé del committente (a cui lo lega un contratto pluriannuale)?
Il procuratore Dupin del resto, nel perseguire gli Usher, chiama alla sbarra l’anima nera d’America. Mentre il difensore è il viscido Pym, il mietitore: un nomignolo ironico ma appropriato visto lo stato dei suoi clienti, che altro non sono se non zombie. Cadaveri che camminano. Sconcerta la totale mancanza di empatia di Roderick e sorella di fronte alla sorte dei propri congiunti: non c’è emozione, trasporto, solo un assistere inermi con notarile coinvolgimento.
La caduta della casa degli Usher non indaga la paura. Non è nemmeno family drama travestito da horror come The Haunting of Hill House. È teoria e pratica dell’algoritmo. Operazione derivativa troppo smaccata per non essere anche speculativa. Al posto della linea di faglia tra razionale e irrazionale, sposa la saldatura tra banale e reale. Forse oggi il vero orrore è questo.