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Il senso di Martin Provost per i personaggi femminili (Seraphine, Quello che non so di lei) ritorna in La brava moglie, commedia che si inserisce bene in quel filone del cinema europeo dedicato alle conquiste delle donne, episodi particolari in grado di offrire una prospettiva più ampia del percorso di emancipazione socioculturale e riconoscimento della parità di genere.
In questo caso, a differenza di film come Suffragette o Il concorso, la storia è frutto della fantasia del regista e della co-sceneggiatrice Séverine Werba, e coglie la fase di cambiamento nella temperie sessantottina calandosi in Alsazia, provincia francese. Senza disdegnare una certa allure da cinema di papà, con qualche morbido ammiccamento nostalgico dato dall’abbondanza di pastelli.
Il punto di partenza è bizzarro, perché potrebbe aprire a un’ipotetica rilettura de La fabbrica delle mogli: c’è un’impeccabile e rigida signora perbene, Paulette Van Der Beck, che con piglio autorevole gestisce con il marito una scuola per casalinghe provette, l’occupazione principale riservate alle donne dell’epoca. Quando rimane vedova e squattrinata, Paulette capisce che l’unico modo per evitare la bancarotta è accettare il cambio di passo imposto dalla società.
E, sì, una donna può occuparsi anche di sé, non soltanto delle faccende domestiche. E se le ragazze, entrate come allieve, hanno dalla loro parte l’anagrafe, cosa fare quando si è superata la cinquantina rinunciando a troppe passioni? D’altronde i desideri non invecchiano quasi mai con l’età, il primo amore non si scorda mai e la perfezione della moglie ideale è una gabbia del patriarcato.
La brava moglie è un tipico esempio di quel cinema medio francese che sa coniugare una forte dimensione popolare e un’attenzione non banale al racconto di costume. Un film “rotondo” che si rivolge un pubblico ben preciso e non rinuncia a suggerire una certa inquietudine nascosta sotto l’apparente idillio (la chiave è nella fotografia è di Guillaume Schiffman, già dop per le fantasie storiche di Michel Hazanavicius ma anche di Tutti pazzi per Rose).
Nonostante difetti qua e là nel ritmo, il film di Provost vale sia come sorridente intrattenimento quanto basta ruffiano sia nei termini di un simpatico racconto di transizione tra l’ancien régime e la contestazione. L’intenzione satirica si poggia sull’ironia di un cast – dominato da Juliette Binoche finalmente buffa e vivace – comunque sopra le righe, ma Provost non ha il coraggio di abbracciare completamente l’audacia del camp con la stessa convinzione con cui maneggia il revival amoroso. Come dimostra, dopotutto, una deriva musical che è un timido ricordo delle fantasie di Jacques Demy.