PHOTO
La Belva_F.Gifuni @Angelo Turetta
Quando il cinema contemporaneo italiano prova a misurarsi con qualcosa di lontano dalle proprie abitudini c'è (quasi) sempre lo zampino di Matteo Rovere, in regia o in produzione.
Come nel caso de La belva (da oggi su Netflix), diretto dal giovane Ludovico Di Martino (classe '92, già regista de Il nostro ultimo e della terza stagione di SKAM Italia), thriller d'azione che non fa mistero di ispirarsi, tanto nella storia, quanto nella scelta dell'attore protagonista, al franchise di Taken (Io vi troverò).
Il Liam Neeson nostrano è Fabrizio Gifuni, attore che siamo abituati a vedere impegnato in tutt'altro tipo di produzioni e habitué del teatro, qui chiamato a vestire i panni di Leonardo Riva, un reduce di guerra cupo e solitario, con un passato da Primo Capitano nelle Forze Speciali dell'Esercito, ora dipendente dai farmaci e costretto ad un’esistenza senza vita. Quel lavoro lo ha portato sempre più lontano dalla famiglia. Suo figlio maggiore, Mattia, non lo ha mai perdonato, mentre la figlia Teresa lo adora incondizionatamente. E proprio il rapimento della bambina costringerà Leonida a trasformarsi nuovamente in qualcosa che credeva ormai sepolto nel suo passato.
Se, come detto, il canovaccio è ricalcante il modello d’ispirazione, a sorprendere positivamente è in primo luogo la naturalezza con cui Gifuni riesce a restituire la durezza e le fragilità di un uomo segnato in modo irrimediabile dai suoi trascorsi (altro elemento, quello dello scavo psicologico sugli ex militari che il cinema italiano non ha mai, o quasi, affrontato), risultando finanche credibile quando si tratta (e succederà parecchie volte) di menare le mani.
La Belva_F.Gifuni @Angelo TurettaAnche dal punto di vista estetico il film di Di Martino non paga dazio, sfruttando al meglio il buon lavoro di Luca Esposito alla fotografia, ambientando la vicenda in una città notturna senza nome dalle atmosfere sinistre e asettiche: serrato e duro, La belva è sì action movie – di livello anche la sequenza dell’inseguimento in auto – ma non dimentica le sfumature necessarie per proporre personaggi dalla caratterizzazione credibile (un po' troppo artefatto, forse, il villain interpretato da Andrea Pennacchi).
Per farlo approfitta di un montaggio in grado di restituire attraverso fugaci flashback le situazioni estreme vissute in passato dal protagonista (ora vestito con un giubbotto con tanto di tigre sulla schiena, dichiarato omaggio al Drive di Refn), deciso a sfidare anche la legge pur di ritrovare sua figlia, finita in un lurido giro di traffico di minori.
E va da sé che tale missione (l’ultima?) per l’ex Capitano sarà anche quella che potrebbe riportarlo nuovamente alla vita. Per amore.