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La bella estate © LUCKY RED
Come tanti altri autori italiani del Novecento, capaci di incantare moltissimi lettori nelle nuove generazioni (Italo Calvino e Natalia Ginzburg su tutti), anche Cesare Pavese non è particolarmente presente nel cinema italiano, contemporaneo soprattutto: tra pochi adattamenti (Le amiche da Tra donne sole, Il diavolo sulle colline e Il compagno per la televisione), è stato il cinema di Danièle Huillet e Jean-Marie Straub a entrare nel profondo dell’opera dello scrittore morto suicida nel 1950, pensiamo a Dalla nube alla resistenza, Quei loro incontri e Il ginocchio dell’Artemide (che hanno all’origine Dialoghi con Leucò e La luna e i falò).
A colmare la lacuna ci pensa Laura Luchetti, che al terzo lungometraggio recupera La bella estate (presentato all’ultimo Locarno Film Festival), racconto che dà il nome alla raccolta che valse a Pavese il Premio Strega del 1950. Più che un aggiornamento, ne dà una lettura contemporanea che esplora il testo con l’ambizione di andare al di là della sua illustrazione.
Quello di Luchetti è un corpo a corpo con Ginia, la giovane, timida, illibata protagonista colta nel suo racconto di formazione, che, nella Torino del 1938, lascia che la tranquillità di una vita “regolare” (proviene dalla campagna, lavora in un atelier, vive con il fratello operaio) si faccia terremotare dalla scoperta dell’ambiente bohémien cittadino. Più del pittore di cui si innamora, a scuoterla è Amelia, seducente modella destinata a soffrire, diversa da tutte le persone che Ginia abbia conosciuto in vita sua.
Coming of age in purezza che contiene i temi cari a Pavese, La bella estate racconta il passaggio dall’adolescenza alla maturità attraverso la scoperta del desiderio (sessuale, d’accordo, ma anche culturale: la libertà del demi-monde in opposizione alle norme imposte dalla società borghese, la “noiosa” solidità morale della campagna intaccata dall’entusiasmante vita sregolata del sottobosco urbano) e la sua frustrazione (Ginia è più vulnerabile dei suoi nuovi amici, meno abituata a varcare limiti e confini, e non sa chiamare per nome ciò che prova).
Luchetti ricuce la verginità di Ginia sulla misura del corpo celeste dell’ottima Yile Yara Vianello, svelandone via via una sensualità imprevista (da desideranti si può diventare desideri) perché pura anche negli impacci, nei turbamenti, nelle paure di fronte alle varie prime volte: la goduria con cui fuma la sigaretta prima nemmeno presa in considerazione, lo spaesamento e perfino la delusione dopo il primo incontro sessuale, l’inatteso bacio con Amelia ripreso da lontano quasi per pudore, il ballo messo in scena come coreografia di un atto erotico.
Tuttavia, pur apprezzando la rarità di una storia al femminile, a La bella estate manca una vera tensione, un guizzo estetico davvero dirompente, uno slancio che faccia traghettare il film da una prima parte più descrittiva a una seconda più emotivamente coinvolgente. Luchetti “confeziona” bene: la fotografia di Diego Romero Suarez Llanos cerca la luce naturale, le musiche di Francesco Cerasi costruiscono un movimento, le scenografie di Giancarlo Muselli restituiscono un’epoca, i costumi di Maria Cristina La Parola fanno le veci degli interpreti. E però Deva Cassel è più decorativa che provocante, Torino si sente più nello scorrere delle stagioni che nella sua architettura austera, il metraggio dilata laddove si sarebbe potuto asciugare.