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Takeshi Kitano in Kubi - 2023 KADOKAWA @ T.N Gon Co., Ltd.
Sei anni dopo il dimenticabile Outrage Coda (Fuori concorso a Venezia) Takeshi Kitano torna a Cannes – in Première – con Kubi, film che rilegge reali avvenimenti accaduti nel Giappone del XVI secolo, tormentato da conflitti sanguinari tra governatori rivali.
Adattamento del suo omonimo romanzo, Kubi riporta il cineasta nipponico nei territori cinematografici del fortunato Zatoichi (2003), film che gli valse il Leone d’Argento ma che segnò anche il tramonto di una filmografia che nel ventennio successivo ha prodotto solamente opere mai degne del suo nome.
Quello che Kitano ha rappresentato negli anni ‘90 – decennio memorabile che lo consacrò a livello internazionale, 7/8 film realizzati, 5 dei quali capolavori indiscussi (Boiling Point, Il silenzio sul mare, Sonatine, Hana-bi, L’estate di Kikujiro) – è qualcosa di ovviamente irripetibile, ma è qualcosa che ancora oggi ci fa attendere un suo nuovo film (pur sapendo che difficilmente toccherà mai quei livelli) con gustosa trepidazione.
Ebbene, pronti-via Kubi si apre con un fiumiciattolo che ospita i cadaveri di samurai sconfitti, con la macchina da presa che finisce per soffermarsi su un corpo di questi, senza testa.
Siamo verso la fine del periodo Sengoku, epoca come detto in cui il Giappone era diviso in molti piccoli feudi costantemente in guerra tra loro: il film si concentra su alcune delle figure più importanti di questa faida.
Tra questi Oda Nobunaga (Ryo Kase), Akechi Mitsuhide (Hidetoshi Nishijima, già protagonista in Drive My Car), “il traditore più famoso della storia del Giappone”, e Hideyoshi Hashiba (Takeshi Kitano), che poco a poco diventerà il vero protagonista della vicenda.
Alleanze e tradimenti, amori proibiti (tra samurai) e sanguinose battaglie: Kubi – che significa collo, come da sequenza iniziale abbastanza esplicativa – oscilla costantemente tra la pesantezza di confronti statici e dialettici e la frenesia di sventramenti e decapitazioni: in mezzo il continuo sberleffo, la comicità dell’assurdo portata dalla maschera di “Beat” Takeshi, per un film che nella sua seconda metà introduce anche il mitologico Hattori Hanzō (Kenta Kiritani) – Tarantino, where are you? – ma che non sa, o non vuole, pigiare sul pedale dell’epopea, preferendo invece la continua altalena tra momenti di battaglia e la via d’uscita slapstick. Fino al rotolare dell’ultima testa…