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Aaron Taylor-Johnson in Kraven - Il cacciatore
Sarebbe fuori luogo dire che la montagna ha partorito il topolino, non fosse altro che l’approdo sul grande schermo di Kraven – Il cacciatore è, sì, l’esito di una lunga gestazione ma anche un intrattenimento un po’ tirato via, un prodotto di consumo effimero che tutto sommato sembra perlopiù assolvere all’obbligo di espandere e arricchire l’universo di Spider-Man firmato Sony.
L’origin story di uno dei più acerrimi nemici del personaggio è, infatti, il sesto appuntamento della franchise SSU (Sony's Spider-Man Universe) e conferma la debolezza di un sistema in affanno che, a differenza del Marvel Cinematic Universe, stenta a costruire un immaginario autorevole (si vedano i precedenti Morbius e Madame Web, con la pur fortunata eccezione del comunque discutibile Venom).
Il problema di Kraven – Il cacciatore, che racconta la vita del villain russo – all’anagrafe Sergei Kravinoff – ricostruendone il rapporto con il padre gangster e i motivi per cui è diventato uno dei massimi predatori mondiali, è che nessuno sembra crederci davvero.
Il primo a non crederci è J.C. Chandor, che si limita a impaginare la sceneggiatura di Matt Holloway, Art Marcum e Richard Wenk senza un guizzo né partecipazione, sapendo benissimo che il primo atto è un impiastro e che, per arrivare ai venti minuti finale, si deve aspettare lo scatto del rocambolesco ed efficace inseguimento prima in strada e poi al porto (potrebbe evocare l’avventura acquatica di All Is Lost, ma è una suggestione che si esaurisce nell’arco di un minuto).
Un po’ non ci crede nemmeno Aaron Taylor-Johnson, che capisce subito l’antifona, mette da parte il corredo emotivo e si concede un’interpretazione tutta ginnica e testosteronica. Così pure Ariana DeBose, che fa quello che può maneggiando un personaggio che nessuno si è preoccupato di scrivere davvero (l’uscita di scena è emblematica per quanto è trascurato), e i cattivi Alessandro Nivola (Rhino) e Christopher Abbott (Straniero) gigioneggiano senza appello.
Forse gli unici che si sintonizzano su questo cinecomic velleitario e sconclusionato, ben rappresentato da una CGI approssimativa se non irricevibile (la lotta con il leone, le allucinazioni, le esperienze pre-morte) e il cui unico interesse reale nel restituire una violenza non edulcorata benché fumettistica (corpi infilzati sui muri, occhi perforati, sangue a litri), sono il più giovane e il più esperto.
Se Fred Hechinger, appena visto come folle imperatore nel Gladiatore 2, ha la giusta dose di ironia per calarsi nelle frustrazioni e nei rancori del futuro Camaleonte, Russell Crowe non fa niente per dissimulare un approccio tutto improntato sulla caricatura. Il fatto che nella maggior parte delle sue apparizioni abbia degli alcolici nei paraggi (la vodka usata anche per disinfettare) non è secondario.