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Leonardo Di Caprio e Lily Gladstone in Killers of the Flower Moon - @ Apple
Deportati in Oklahoma alla fine dell’800, gli Osage diventarono poco dopo i cittadini con la ricchezza pro capite più alta del mondo grazie alla scoperta del petrolio in quei territori. All’indomani della prima Guerra Mondiale, il giovane Ernest Burkhart (Leonardo Di Caprio) raggiunge questa nazione dove, ovviamente, gli americani più scaltri hanno già deciso di “investire”. E come capirà presto dal suo “protettore” William Hale (Robert De Niro) – “chiamami uncle o se preferisci king”… – l’investimento risiede nel mettere il cappello su una delle native, sposarla e attendere che il “destino” si compia…
Era il film più atteso di questa 76ma edizione di Cannes, one-shot senza possibilità di repliche per gentile concessione di Apple – che in autunno lo porterà nelle sale per poi distribuirlo su piattaforma – ed è il film con cui Martin Scorsese – quell’irresistibile cammeo poco prima dei titoli di coda lo certifica – si prende la responsabilità di chiedere scusa a nome di un’intera nazione nei confronti di un popolo. E allargando il discorso, forse, anche a nome di certo cinema USA che attraverso la mitologia della frontiera ha costruito un immaginario dalla parte sbagliata della storia.
Da sempre abilissimo inventore e manipolatore di generi, Scorsese realizza ad 80 anni il suo primo western, ma lo fa senza cavalli e piegandone le traiettorie assecondando i crismi del mafia-movie: sì perché la storia (vera, desunta dall’omonimo romanzo di David Grann) altro non è che la riproposizione di stilemi cari ai suoi più nitidi capolavori (Quei bravi ragazzi, Casino) e non è un caso se ad incarnare il puparo dell’intera questione abbia rivoluto con sé il puparo di allora, un Robert De Niro che finalmente può specchiarsi nel suo erede scorsesiano per eccellenza, Di Caprio, che è sempre bravo per carità, ma che qui è destinato in partenza a perdere il confronto diretto.
Certo, non tutto è oliato alla perfezione in questa macchina (d’epoca) di 3 ore e 26 minuti, e anzi viene più volte il sospetto che alcune ridondanze siano destinate al futuro pubblico da salotto più incline a perdersi qualche passaggio: ma l’abilità con cui Scorsese riesce a costruire ancora oggi un’epopea di così ampio respiro, mescolando period-drama a crime story, commedia (alcuni duetti De Niro – Di Caprio sono arte pura) e tragedia, giustificano tanto l’attesa quanto la portata dell’evento, che regala anche la bella sorpresa di Lily Gladstone (Mollie), forse vera protagonista assoluta della storia.
Perché è innegabile che il regista di Toro scatenato e Wolf of Wall Street cerchi in questa figura archetipica il simbolo di una resistenza stoica ad una delle (tante) pagine esecrabili della storia americana, l’ennesima storia di sangue e denaro, di violenza e soprusi, di innocenti ammazzati in nome di una rendita sicura, di un guadagno sporco che neanche l’amore potrà mai ripulire.
Non sarà il miglior Scorsese di sempre, nessuno lo nega, ma in fondo chi se ne importa: con tanto di omaggio agli Intoccabili di De Palma quando De Niro sdraiato dal barbiere inizia a rispondere all’agente della neonata FBI. Allora era Al Capone (e rispondeva ai giornalisti), stavolta un altro delinquente che proprio nello stesso periodo faceva il bello e il cattivo tempo in un’altra parte della nazione. La nascita di una nazione. L’ennesima, sul sangue di altri.