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Kill Me
Tre avvertenze prima della visione. 1) Una clinica per suicidi esiste davvero, si trova in Svizzera ed è l'invenzione elvetica più promettente dai tempi dell'orologio a cucù. 2) Il belga Olias Barco (il regista) non è uno sprovveduto, avendo tentato di togliersi la vita più volte prima di girare questo piccolo capolavoro 3) Nonostante il tema e l'austero bianco e nero, il film vi seppellirà solo di risate.
Decisiva la chiave dissacratoria, ferocemente grottesca, utilizzata da Barco perché il cortocircuito tra racconto e discorso, tema e tono, esploda in forme travolgenti e assolutamente originali. Kill Me Please - vincitore dell'ultimo festival romano - mescola con disinvoltura Ferreri, Tati e Dreyer per portarci negli abissi delle pulsioni umane, laddove la fame del desiderio rompe gli indugi e, non trovando più nulla da consumare, finisce per divorare se stesso. Il tema, dunque, non è l'eutanasia come erroneamente riportato da diversi giornali, ma il nichilismo (narcisista) della volontà. Gli aspiranti suicidi che decidono di ricorrere alle prestazioni del Dr. Kluger non sono - se non in un solo caso - malati allo stadio terminale, ma depressi cronici, falliti, bancarottieri, cialtroni. Attori da cabaret, maschere buffe e tristi nell'oscena recita della vita. E nonostante la disperazione sia il problema, vivere un disturbo e la morte da mandare giù con un bicchier d'acqua, i protagonisti - un cast straordinaro - non vogliono la fine, ma opzionarla, metterla in scena, gustarla. Dominato da un narcisismo onnivoro, l'uomo- feticcio non conosce altro(ve) se non quello delle sue fantasie, mentre la sua bella società è svanita dietro il nome di istituzioni fantasma (dov'è la polizia?) e nei limiti tracciati da cecchini invisibili. Uscire da sé e dalle proprie ossessioni può essergli altrettanto fatale.
Kill Me Please è un dramma da camera che usa gli esterni come interni, e congela tutto nel bianco e nero di una vita scolorita e insensata. L'umorismo di Barco è isterico, fisiognomico e improvviso. Politico? Può darsi. Tutto quel parlare - lo fa alla fine Kluger - di soldi e risparmi che il suicidio assistito porterebbe allo stato lo farebbe pensare. Eppure l'impressione è che Barco non cerchi scusanti o appigli sistemici, il suo pessimismo è totale: cosa c'è dietro l'ossessione per la "bella" morte se non l'irrefrenabile vanità dell'ego, una visione monca e monoculare (e chi non capisce la questione, come succede a un oppositore catturato dal dottore, deve perdere un occhio), la vita ridotta a narcisistica recita, l'altro a mezzo e l'aldilà a palcoscenico? Tutti rivendicano "una storia" da raccontare (come l'uomo con la moglie persa a un tavolo da gioco), uno specchio, un finale da scegliere. C'è chi morirà col "vigor" mortis, chi da Rambo, chi in posa plastica. E c'è chi, infine, avrà la tanto desiderata platea per un'ultima, catarrosa esecuzione della Marsigliese: siamo noi, il pubblico in sala. Complici di un'oscena performance. Il sipario può chiudersi, la farsa è finita.