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Di padri frustrati e figli fuori posto, sogni riflessi e desideri segreti. Attorno a questo grumo di tormenti si sviluppa Just Charlie. Produzione inglese del 2017, solo adesso arrivata da noi, è la storia di un quattordicenne destinato a fulgido futuro nel calcio e però a disagio col proprio corpo maschile.
Diventa chi sei, recita il sottotitolo italiano. E Charlie – nome unisex – vorrebbe essere una ragazzina, perché solo quando si veste (di nascosto, nel bosco nei pressi di casa) con abiti femminili riesce a essere felice. “Io sono qui dentro”, lamenta, “ma è come se nessuno riuscisse a vedermi, è come se tutti parlassero a un estraneo”.
Nel pieno del romanzo di formazione, Charlie deve trovare un equilibrio tra il bisogno di affermare la propria identità e i progetti di vita che i genitori hanno immaginato per lui (anzi: lei). Soprattutto quelli del padre, che nel figlio vede la possibilità di realizzare un antico sogno inespresso quando il Manchester City si fa avanti con l’offerta di un ingaggio.
Certo, non è facile vivere così nel cuore della provincia inglese. Spazio chiuso, dove il calcio è il principale argomento di discussione e la disforia di genere più che un malessere dell’individuo è vista come il capriccio di un adolescente in crisi. “È brutto essere bloccati in questo corpo”. Quello di Charlie è un grido che invoca aiuto, un conflitto che esplode con tutti i contraccolpi del caso investendo i familiari, gli amici, la comunità.
Storia sulla creazione di un’identità, Just Charlie segna l’esordio di Rebekah Fortune, che nei luoghi del film è nata e cresciuta. Parla di qualcosa che conosce bene, delle piccole meschinità di cui sono capaci coloro che in un ambiente ristretto preferiscono respingere anziché accogliere chi differisce rispetto alla “norma”.
Un film che affronta le diverse declinazioni della paura, dalla disperazione derivata da qualcosa di inatteso alla delusione di non essere all’altezza dei desideri altrui. Ma anche sul coraggio di essere se stessi.
Pur senza vibranti guizzi creativi, Fortune affronta la vicenda con limpida sensibilità e misurata empatia, dimostrandosi regista capace di adattarsi con la stessa attenzione sia alla prospettiva adolescenziale che a quella dei genitori. Non a caso, le cose migliori sono proprio l’ottima direzione del debuttante Henry Gilb e di Scot Williams nel ruolo del padre, personaggi trattati con rispetto e comprensione.