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Julie Keeps Quiet @echogroup
Negli ultimi tempi è Sinner-mania: non c’era mai stato un nostro beniamino sul tetto del mondo, e di sicuro il meglio deve ancora venire. Il prossimo appuntamento (molto probabilmente) sarà agli Internazionali di Roma. In Italia il tennis sta vivendo un momento d’oro, e anche sullo schermo. Non è uno sport facile da portare al cinema. Non c’è contatto fisico (come nel pugilato), ma solo distanza. Il legame è mentale, la tensione bisogna creala, non è immediatamente replicabile attraverso le immagini. Lo sa bene Luca Guadagnino, che con Challengers ha dato vita a un triangolo dagli esiti inaspettati e dirompenti. Ma il protagonista era naturalmente il tennis.
Una nuova riflessione arriva ora dal Belgio. Si tratta di un’opera prima, il titolo è Julie Keeps Quiet e dietro la macchina da presa c’è Leonardo Van Dijl. Qui lo scontro tra racchette si fa intimista. Non interessa la traiettoria della pallina, ma il giocatore. Raramente ci sono campi lunghi, le inquadrature sono strette, si focalizzano sui movimenti del tennista. Già da questo si può capire che si ragiona per sottrazione, come suggerisce il titolo. La protagonista ha un segreto, si chiude nel suo silenzio, e il film rispetta la sua scelta. I dialoghi sono essenziali, ci si immerge nella mente di Julie, e solo lentamente si intuisce che cosa è successo. Lei è una giovane stella, si avvicina un importante torneo. Potrebbe essere una campionessa del futuro. Ma un giorno il suo circolo, un’accademia tra le migliori, viene scosso dal suicidio di una sua collega. Uno dei maestri viene sospeso, non si sa per quale motivo, e forse Julie è l’unica che può far luce su quanto è accaduto.
Il mistero è l’anima di Julie Keeps Quiet. A suo modo si tratta di un esordio fuori dagli schemi, contro i ritmi forsennati delle storie legate allo sport. La vera sfida non è sulla terra rossa, ma nel profondo di una ragazza che cerca nonostante tutto di sopravvivere, e di non essere schiacciata. Le sue giornate sono ripetitive: i genitori, gli insegnanti, la scuola, l’allenamento, lo studio, qualche volta l’incontro con un amico. È tra questi piccoli gesti che lo spettatore deve cogliere le sfumature della narrazione.
Potremmo dire che Julie Keeps Quiet lavora contro l’immaginario come lo conosciamo. Bisogna attivare altri sensi per calarsi nel racconto. Non esistono spiegazioni o parole rivelatrici. Bisogna soffermarsi sull’intuizione, sulle espressioni. Julie Keeps Quiet è quindi un’opera in controtendenza, che nella sua imperfezione mostra una cifra stilistica molto riconoscibile. Leonardo Van Dijl ha un piglio coraggioso, specialmente se si pensa agli ultimi film legati al genere.
Altri esempi possono essere Borg McEnroe di Janus Metz Pedersen, la cronaca di una rivalità inesauribile, e il documentario John McEnroe: In the Realm of Perfection di Julien Faraut, quasi uno studio sul tennis e sul carattere del noto campione durante la finale del Roland Garros del 1984, contro Ivan Lendl (uno scontro da antologia).Per il regista questi titoli sono una cornice, un contenitore che serve per concentrarsi su qualcos’altro. La lezione è simile a quella di Match Point di Woody Allen: la vita è una partita e, se la palla colpisce il nastro, tutto può cambiare in un attimo. La discriminante è la parte di campo in cui cade. Nel caso di Julie Keeps Quiet l’invito è al dialogo, a mostrare la propria forza anche se non è subito manifesta. Un film attuale, che si destreggia tra più canoni e fa sentire la propria voce. Presentato in anteprima all’ultima edizione del Festival di Cannes, alla Semaine de la Critique.