Judy Garland: il mito, la leggenda. Difficile avvicinarsi a una diva così spigolosa, “impossibile”, come la definivano in molti. Sul set fin da piccola, “schiavizzata” da Hollywood, magnifica in È nata una stella, struggente in Vincitori e vinti.
Un’esistenza tormentata, sempre sull’orlo del baratro, a cavallo tra il talento e le imposizioni. Tra le più grandi di sempre: attrice, ballerina, cantante, da The Big Revue a Ombre sul palcoscenico, passando per Somewhere Over the Rainbow ne Il mago di Oz e oltre.
Il regista Rupert Goold sceglie di sfidare le mille sfaccettature di Garland, e di provare a celebrarla sullo schermo, raccontando solo l’ultimo periodo della sua vita, quando lottava per la custodia dei figli, era in bolletta, e aveva accettato una serie di concerti a Londra per guadagnare qualcosa.
Ma l’affresco non riesce a riproporre la complessità, la durezza di quel periodo. Il dolore resta trattenuto invece di debordare, e Goold decide di non smontare l’icona, ma di rimetterla in piedi. Non si spinge oltre il limite, e anche l’alcolismo viene solo accennato. Qualche bicchiere, due serate immerse nella vodka, ma non si assiste al vero crollo della Garland.
Judy potrebbe essere simile a Stan & Ollie. Con la stessa cifra nostalgica, l’idea crepuscolare di un’epoca che giunge al termine.
Laurel e Hardy erano anche loro con le tasche vuote, ma il ritratto era intimista, sincero, incurante di qualsiasi lustrino e luce della ribalta. E la malinconia era palpabile.
In Judy tutto sembra posticcio, quasi finto. L’ambizione sarebbe di condannare la Hollywood che distrugge i suoi beniamini, schierarsi al fianco di chi è schiacciato dal mal di vivere. Solitudine, dipendenze, il fasto degli alberghi a cinque stelle contro lo spirito di chi ormai è in rovina.
Si vorrebbe ragionare sugli opposti, come l’amore per il pubblico della Garland: distrutta dai suoi spettacoli vorrebbe ritirarsi, però è ancora attratta dagli applausi. Ma tutto è laccato, affonda nel finto lusso, viaggia con il freno a mano tirato per non spingersi troppo in là.
E anche i flashback che riportano alla sua infanzia sono ricattatori, con la musica strappalacrime montata nei punti giusti. Il finale, in pieno stile Bohemian Rhapsody, punta tutto sull’effetto nostalgia, cercando di trasformare la realtà in favola.
A brillare è Renée Zellweger, una Judy Garland fragile, sospesa tra l’apparenza e il travaglio che ha dentro. Attorno a lei ci sono comprimari impossibili, macchiette che la accompagnano nel quotidiano.
Dal nuovo marito che si presenta nel carrello del servizio in camera, alla coppia di sostenitori che non sanno neanche cucinare un’omelette (e ci mettono la panna).
Piccoli siparietti che si incrociano, fanno perdere la giusta misura al film. Con Zellweger che si carica Judy sulle spalle e rende omaggio alla grandezza di chi davvero ha fatto la storia del cinema.