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Josep è Bartolì, il celebre illustratore spagnolo al centro della premiatissima opera prima di Aurel (EFA e César per il miglior film d'animazione), a sua volta illustratore per, tra gli altri, Le Monde. Una vita lunghissima, che attraversa tutto il secolo (nato a Barcellona nel 1910, è morto a Manhattan a 85 anni), ma rievocata in un suo frangente fondamentale, quando, nel 1939, in fuga dalla Spagna franchista, finì confinato in un campo di concentramento francese.
La storia è raccontata a un giovane writer dall’anziano nonno, allettato con la memoria non più così precisa, che conobbe Bartolì in quanto di quel campo era una delle guardie. Guardia sui generis, perché a differenza dei suoi compagni non abusava di quei prigionieri condannati a morire di stenti. Ed è proprio questo rapporto a offrire una nuova speranza all’artista, che nonostante le torture e la fame, nel 1943, grazie alla guardia, riuscì a scappare in Messico.
Omaggio a un artista da parte di un altro artista, Josep è prima di tutto un film sul fare-arte, nella fattispecie sull’atto del disegnare inteso come strumento di comunicazione, linguaggio elettivo, istinto di sopravvivenza, mentre la bellezza del mondo sembra svanire nel dolore di un’umanità straziata.
È un approccio che è politico (alla sceneggiatura ha messo mano Jean-Louis Milesi, già collaboratore di Robert Guédiguian: una dichiarazione d’intenti) oltre che stilistico che risulta evidente nella ricostruzione del campo: come i colori si riducono a quelli di una tavolozza ridotta all’essenziale così il portato emotivo si fa più intenso proprio per la predominanza estetica del tratto di matita.
D’altronde se l’intento di Aurel è tutto interno al territorio dell’illustrazione allora l’esito non può che affrancarsi dal realismo per offrire una visione della realtà filtrata dalla mediazione del disegno. Che si proietta in diverse rappresentazioni quante sono le stagioni rievocate dal biopic, che differiscono per schemi figurativi e scelte cromatiche seguendo l’evolversi della storia.
Un’operazione complessa che rende Josep un film di pensiero prima che d’azione, dove la tecnica è funzionale al discorso e non al servizio, in cui la testimonianza è linguistica e non soltanto storica. Anche perché se certamente c’è aderenza alla biografia di Bartolì non mancano licenze dovute all’inesattezza memorialistica del nonno (le apparizioni di Frida Kahlo, che di Bartolì fu amante nel dopoguerra).
Ma le imprecisioni non inficiano sulla tenuta ed è tutto organico alla costruzione di un film che si prende i suoi tempi, chiede allo spettatore di svincolarsi dall’ordine cronologico e si propone anche come uno studio sull’opera di un artista che ha vissuto una vita larger than life. E che, come si capisce, in tutta la parte contemporanea, sa ancora dialogare con il futuro.