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Julien Faraut confeziona L’Impero della perfezione, un documentario su John McEnroe, tra le figure più giganti nella storia del tennis. Ma non è il “canonico” documentario (non ci sarebbe nulla di male), il regista traccia dall’inizio uno stretto parallelismo tra cinema e sport.
I due macro-contenitori di storie trovano appigli comuni in ogni svolta descrittiva della pellicola ma divergono nel punto critico, un Godard citato all’inizio e confermato alla fine da una crudele composizione ad anello: “Il cinema mente, lo sport no”.
L’orizzontalità della forma documentario viene sfruttata a dovere per esplicare, dal punto di vista cinematografico e meta-cinematografico, tratti tipici della personalità ribollente del protagonista americano. Sembra infallibile sul campo da gioco, ma come fa? Qual è il prezzo da pagare per essere come lui?
Proprio come un regista, McEnroe crea e dirige il tempo del gioco. Il risultato è che ogni match prende una direzione ben precisa, a senso unico, seppure ostacolato, esattamente come un film. I suoi gesti, la sua plasticità sembrano far parte di rituali scenografici, coreografici, persino drammatici nell’accezione teatrale (che il documentario fa derivare dal latino, ma risale fino al greco antico).
![](https://www.cinematografo.it/image-service/version/c:MDRkYmZlNmItNjE5Ny00:NmItNjE5Ny00YmQwYTQ1/mcenroe.webp?f=default&q=0.75&w=3840)
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Anche il suo caparbio ribellarsi alle decisioni arbitrali, nell’occhio di Faraut, non testimoniano sic et simpliciter un carattere vulcanico, indubbiamente presente, ma anche una volontà “super-umana” di controllare ogni aspetto della partita in corso, e quindi della sua vita.
Ne deriva un conflitto innato, probabilmente cicatrice di ogni sportivo sempre in bilico tra la vittoria e la sconfitta, ma in McEnroe pronunciato come e più dell’epica hollywoodiana. Benché, proprio sul finale, la musica ecceda un poco e cada nel tranello che tutto il film, col suo ritmo posato e geometrico, vorrebbe disinnescare, non c’è alcun bisogno di spettacolarizzare.
Nel tennista imperatore (o quasi) della perfezione vive un conflitto onesto, sincero, profondo e senza sconti. Perché, se il cinema mente, lo sport non è altrettanto generoso.