Nei giorni in cui scopriamo il lungamente atteso Dune di Denis Villeneuve, recuperiamo Jodorowsky's Dune, documentario di Frank Pavich uscito nel 2013 con larghi consensi (moltissimi festival e tanti premi) ma che con l’occasione del nuovo kolossal ci appare forse ancora più attuale e interessante. Non tanto – o perlomeno non solo – perché ricostruisce con vivacità le vicende attorno a uno dei più celebri film mai fatti della storia del cinema, ma anche – o soprattutto – per capire come quel fallimento abbia influenzato le opere di altri registi.

Un po’ di coordinate temporali: diventato un autore di culto grazie ai successi di El Topo e La montagna sacra, nella seconda metà degli anni Settanta il messicano Alejandro Jodorowsky venne messo nelle condizioni di poter girare ciò che voleva. E ci stava per riuscire, letteralmente, forte della sinergia con il produttore Michel Seydoux, a capo di un consorzio che aveva acquistato i diritti della saga di Dune di Frank Herbert con l’obiettivo di farlo adattare all’artista del momento.

Il progetto affascina mezzo mondo, dai Pink Floyd e i Magma coinvolti per realizzare la soundtrack prog ai designer H.R. Giger, Chris Foss e soprattutto Moebius, per non parlare dell’incredibile cast: Salvador Dalí e dunque la musa Amanda Lear scettica sin dapprincipio ma esaltatissima, Udo Kier dalla factory di Andy Warhol, David Carradine, Mick Jagger fino ai monumentali Orson Welles e Gloria Swanson.

Operazione picaresca e avventurosa, che Jodorowsky e Seydoux rievocano con entusiasmo e dovizia di particolari, destinata naturalmente a non compiersi mai. In piena pre-produzione ci si rese conto che il budget previsto era insufficiente, le spese si rivelarono subito fuori controllo e Jodorowsky ragionava nell’ottica di un filmone di 14 ore tradendo in larga parte il materiale originale di Herbert. Dopo due anni e mezzo di sviluppo, in mancanza di 5 milioni necessari per completare il budget, il progetto decade. Nel 1982 spuntano i De Laurentiis: acquistano i diritti, arruolano David Lynch e producono un film molto atteso che andò male al botteghino e solo il tempo ha fatto assurgere allo statuto di culto.

 

La parte più struggente ed esaltante del documentario di Frank Pavich è nel sottofinale: dopo aver visto i bozzetti preparatori e ascoltato le fantasticherie di Jodorowsky, scopriamo come tutto quel materiale sia confluito altrove, con le sue intuizioni traslate all’interno di contesti che nulla c’entravano teoricamente con la trasposizione di Dune. In fondo la tesi è tutta qui: il Dune di Jodorowsky non è mai esistito, ma senza questo film mai fatto non sarebbero mai esistite sequenze e idee di Alien, Blade Runner, I predatori dell’arca perduta e chissà quanti altri blockbuster che hanno attinto a quel patrimonio.

Ma non c’è recriminazione, anzi, è tutto piuttosto trasparente, perché restituisce non solo un orizzonte culturale fluido e aperto ma anche un’industria che per rigenerarsi ha accolto i membri (effettisti speciali e autori di storyboard, per esempio) di quella produzione così eccentrico e inconcepibile. Nel filone dei documentari sul cinema, quello di Pavich è sicuramente tra i più divertenti e intriganti nel restituire la visionaria follia di una storia assolutamente fuori dall’ordinario.