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Jauja
Un certo sguardo. Quello dell'argentino Lisandro Alonso è qualcosa di più, che va oltre. Che senza dubbio meritava il Concorso principale, perché il suo nuovo film, Jauja ("terra mitologica di abbondanza e felicità"), si riappropria del fascino antico, seppur sempre rivoluzionario, dell'aspect ratio 1.37:1 (lo straordinario Meek's Cutoff di Kelly Reichardt vi ricorda qualcosa?...) , perché ci porta ai confini del mondo e, per farlo, chiede alla fotografia di Timo Salminen (sodale di Aki Kaurismaki) di illuminarlo in maniera quasi parossistica, così artificale da sembrare più naturale del vero: "un certo sguardo". Un Certain Regard. Ma fosse stato in gara per la Palma d'Oro, Lisandro Alonso avrebbe potuto davvero dire la sua. Per la prima volta, poi, il regista di La libertad, Los Muertos, Fantasma e Liverpool (abbonato alla Quinzaine des Réalisateurs nelle ultime tre occasioni), si affida ad un attore professionista di livello internazionale, Viggo Mortensen, che ancora una volta riesce a sorprendere per il coraggio delle proprie scelte e per un'interpretazione memorabile, di fisico e sofferenza, multilingue e immersa in un passato che sembra ormai fuori dal tempo. E' un capitano danese, Gunnar Dinesen, arrivato in Argentina dalla Danimarca per collaborare con l'esercito locale. Insieme a lui, la bella figlia quindicenne Ingeborg (Viilbjork Mallin Agger), unico esemplare femminile nel raggio di centinaia di chilometri, che una notte fugge con un giovane soldato. Gunnar decide di mettersi sulle sue tracce.
Ambientato intorno al 1880, Jauja trae ispirazione dalla cosidetta "Conquista del deserto", operazione militare condotta dall'Argentina per strappare agli indigeni i territori della Patagonia. Lungo il suo cammino, il protagonista avrà modo di incontrarne alcuni. Ma è un incedere, quello di Gunnar, che va di pari passo al mistero continuo che cerca di risolvere lo stesso Alonso: è quello della visione, del ragionamento grammaticale, geometrico, con cui tentare di "rinchiudere" immagini di un mondo perduto, mitologico, eppure completamente mutevole. E' un alternarsi di camera fissa - per incorniciare il lento incedere di un soggetto da un angolo all'altro dell'inquadratura - e "schiaffi", con cui tentare di catturare un cambio di ritmo, di respiro, la presenza di un cavallo, o il rumore di un ciuffo d'erba calpestato. E', fondamentalmente, quello che un tempo amavamo definire "cinema di ricerca", e che nelle mani di Alonso - anche attraverso la storia che racconta - diventa metafora di conquista. E di perdita. Di meraviglia (l'unico commento musicale è di notte, con il protagonista solo sdraiato su un masso ad osservare le stelle, musica scritta dallo stesso Mortensen...) e di scoperta. Quelle, immaginiamo, che farà la giovane Ingeborg una volta fuori il cancello della lussuosa, triste e solitaria magione in Danimarca...
Un certo sguardo. Ma meritava il Concorso.