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Jack Goes Boating
Philip Seymour Hoffman uno, bino, comunque uno. Per la prima volta dietro la macchina da presa, l'ottimo attore americano conferma se stesso: loser, goffo e disadattato il suo personaggio, “piccolo” il film che lo ospita, indipendente il cinema che lo accoglie.
Insomma, tra debiti contratti con i registi della sua carriera e qualche sparuta diversione in prima persona singolare, un po' di delizia - la pasta d'attore c'è sempre, e non è scotta, anzi - e qualche croce, perché dei topoi poetici e degli stilemi dell'indie stelle & strisce questo Jack Goes Boating (anteprima italiana sotto la Mole, fuori concorso) ne è consapevolmente zeppo, nonostante le ripetute sirene d'allarme sulla loro novità e pure legittimità.
In breve, Jack guida limousine, vive in un seminterrato (che non vediamo), ha un solo amico, Clyde, e si fa tollerare e poco più dalla moglie di questi, Lucy: tutto malino, grigio e un filo ritardato, finché non gli viene “profferta” un'altra misfit, fresca di violenza e con un altro mondo (im)possibile in testa, Connie. Saranno rose, ma con le spine tutte intorno, a cominciare dall'altra coppia, nera non solo per la pelle, ma le fortune binarie.
Ecco, Hoffman non cede al lato oscuro, ma racconta una storia minore, se non minorata, con ampio ricorso all'enfasi del minimalismo “senza padroni”: musica a palla, digressioni intimiste, sospensioni di giudizio, secche secchissime narrative e training autogeno, in vasca corta e, spesso, fiato corto. Forse, il buon Philip ha mandato troppo a memoria il nostro ritornello: finché la barca va…