PHOTO
J. Edgar
Un uomo, otto presidenti: troppo, troppo per fare della res publica il focus del biopic. Dopo diversioni e tentennamenti (vedi Gran Torino, Hereafter, Invictus, tutti variamente dimenticabili, se non deprecabili) e prima di fare un reality (sic) formato famiglia à la Ozzy Osbourne, Clint Eastwood finalmente sceglie: il privato sul pubblico, anzi, il privato contro il pubblico.
E lo fa sin dal titolo: J. Edgar, scelto in sartoria, tra un panno e una bindella. Quello che confeziona è un biopic che, essenzialmente, dà per scontato - per gli europei ma anche per molti americani, potrebbero esser dolori - il cotè pubblico di J. Edgar Hoover, demiurgo e capo dell'FBI per quasi 50 anni, e ne rivela la germinazione dal privato, cosicché le gesta di H. altro non sono che esternalità di una dimensione individuale, singolare, idiosincratica, indagata con empatia e astensione dal giudizio: Edgar vorrebbe una compagna, Helen Gandy (Naomi Watts), ma come lei vuole prima il lavoro: ne farà la segretaria e la custode dei (archivi) segreti; J. vorrebbe amare, ma il prescelto è un uomo, Clyde Tolson (Armie Hammer), e non si può fare: omosessuale latente, amante inconcesso, la soluzione è - ancora - lavorativa; Hoover vorrebbe controllare, e ce la farà, soprattutto, a sue spese. Ancora e ancora lavoro, dunque, ma se lì risiede la quantità del filmone (durata: 137') di Eastwood, non così la qualità: umano, troppo umano questo Edgar, uomo così di potere da non dover essere dimostrato, uomo così fragile da poter essere indagato, sia nel rapporto morboso se non deviato con la madre (Judi Dench, formidabile) sia nel non-rapporto con Clyde, per cui non resta che la tenerezza.
O la morte: pur involuto e massimalista, se non debordante, il finale è il cuore rivelatore. Edgar è Edgar solo morto, si concede a se stesso, ovvero agli altri (Clyde), solo quando non è più. Non a caso, J. Edgar non è un ritratto di J. Edgar Hoover, ma fondamentalmente il ritratto di ciò che Edgar J. non è potuto essere.
Fin qui tutto bene, anzi, meglio, perché anima e corpo è la prova di Leonardo Di Caprio: prova isomorfica, meglio, metamorfica, con una capacità simbiotica a tratti irresistibile. Insomma, da Oscar, se Eastwood e lo sceneggiatore Dustin Lance Black non toppassero alla grande: dagli inizi del ‘900 al ‘72 della morte, è sempre Di Caprio, ma il trucco non aiuta, né la voce che - volente o nolente - non cambia. Addirittura, un velo pietoso va steso sugli altri invecchiamenti al trucco e parrucco: no comment la Watts, risibile il povero Hammer, che invecchia peggio di Benjamin Button.
Peccati di una decennale tranche de vie, che molto dà - sì, l'ambizione non manca - e più di qualcosa toglie, già nella mera verosimiglianza. Non solo, chi ha letto James Ellroy - Hoover è un onnipresente, maniacale spauracchio - e chi ha visto The Aviator potrebbe, dovrebbe lamentare l'assenza di sporco, la latitanza delle ossessioni, la mancanza di qualcosa di fesso e arroventato nell'archivio Hoover. Peccato, ma non si può chiedere a Eastwood quello che oggi nemmeno Scorsese saprebbe più fare: arriverà forse il Mickey Cohen di Sean Penn (Gangster Squad, regia di Ruben Fleischer) a ridare sangue e feccia agli ellroriani, per ora c'è J. Edgar. Il miglior Eastwood dai tempi Lettere da Iwo Jima, ovvero qualcosa in più di Changeling: d'altronde, Di Caprio non è la Jolie e Hoover è Hoover. Un pezzo di storia nella Storia.