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Esattamente 27 anni dopo il primo adattamento del romanzo – il calligrafico It di Tommy Lee Wallace, passato invano in tv – la Warner prende le misure cinematografiche al capolavoro di King realizzando un remake (il primo di un dittico, con il secondo che verrà dedicato all’età adulta dei personaggi) destinato a ripetere i fasti - almeno a guardare i primi responsi al box office: nel weekend d'esordio quasi 200 milioni di dollari realizzati worldwide (132 milioni solo negli Stati Uniti) - dell’originale letterario. Per gli amanti della numerologia 27 erano, nel libro, anche gli anni che passavano tra un’apparizione del mostro e un’altra. E sempre a proposito di numeri, chissà se i fan dell’It di carta perdoneranno ai realizzatori dell’It su schermo lo slittamento del prologo dal 1958 al 1988, trent’anni dopo (come trenta sono gli anni che ci separano dalla pubblicazione del romanzo).
Stephen KingTutto questo è avvenuto non perché Cary Fukunaga (True Detective, Beasts of No Nation) abbia deciso di scrivere l’adattamento seminandolo di esche simboliche e provocazioni fandom, ma obbedendo semmai al riflesso incondizionato di rifare l’epoca mediaticamente dominante oggi: gli anni ottanta.
Ed è questo il vero atto autocosciente dell’operazione, lo sguardo apparentemente nostalgico ma in verità retrospettivo sulla decade più felice d’America. Che è stata, guarda caso, anche l’ultima grande stagione di Hollywood, dopo l’anarchia nouvellevaguista dei Settanta . Non dimentichiamo che i Cruise e gli Schwarzenegger, ovvero l’action con la maiuscola, è allora che vengono fuori. Che a quel tempo Spielberg piazza due straordinari cult come E.T. e Indiana Jones. Che la fantascienza poteva essere infantile (Ritorno al futuro, I Goonies) o spaventosamente adulta, confondendosi con l’horror in Terminator, Predator, La cosa. E che l’horror flirtava spensieratamente con l’avventura e il fantastico (Ghostbusters).
Questi anni dominati da un consumismo insaziabile e felice, reale e immaginario, vissuti goliardicamente inseguendo mode temibili, giacche con le spalline e capigliature improbabili, anni di orgoglioso disimpegno pop, di note di colore e di ritornelli synth mentre il resto del mondo non liberale andava tranquillamente a farsi fottere, costituiscono l’imprinting per tutta una generazione di autori che oggi lavorano ai vertici dell’industria culturale. Così Andres Muschietti, argentino, classe ’73, già apprezzato regista di ghost story (La madre, 2013) e ora investito dalla Warner della responsabilità di far rinascere It dalle sue ceneri e trasformarlo nell’unica forma che la Cosa di King non era mai diventata, il denaro, lo sterco del diavolo, non ha altro immaginario da offrire se non gli ’80 a questi orfanelli dell’immaginazione che sono gli spettatori/teenager di oggi, cui la tecnologia ha imposto l’ossessione panottica preferendola agli stimoli della fantasia. Quest’Age d’Or eccitante, ma non del tutto dorata, già sospettosa del pacco che dai Novanta in poi gli avrebbero rifilato, diventata d’improvviso la madeleine del cinema contemporaneo, non è, come si potrebbe facilmente pensare, un passato da rimpiangere ma un presente remoto, che si ripete come il giorno della marmotta. Così che a riconoscersi in questa stagione puramente scenica, rievocata più per i suoi fantasmi che per i suoi oggetti d’antiquariato, non sono solo i ragazzini di ieri ma anche i loro i coetanei di oggi, intimi con personaggi che non hanno mai visto un cellulare in vita propria, usano la bicicletta e ascoltano musica da goffi supporti fisici.Non c’è lo shock né forse la seduzione del vintage. C’è invece l’apoteosi di un immaginario incredibilmente resistente, fondamentalmente elastico, definitivamente ludico, fortemente caratterizzato non per la Storia che racconta (bisognerà attendere la caduta del Muro di fine decennio, nel 1989, per trovare un evento degno di finire nei manuali di scuola) ma per le storie che promette, Amazing, stories per tutti. Da questo punto di vista It di Muschietti (dal 19 ottobre nelle nostre sale) certifica quello che Abrams aveva solo trattato come effetto malinconico di recupero e che invece il netflixiano Stranger Things aveva intuito in tutte le sue implicazioni moderne: il ritorno nel grembo edenico degli eighities come tentazione escapista dei millennials senza un millennio a venire. Senza cioè quelle classiche narrazioni avveniristiche, escatologiche, da guarda chi c’è dietro il sipario, che noi figli degli Ottanta abbiamo invece cavalcato. Il ritorno non indica perciò un movimento all’indietro né tantomeno un salto in avanti ma uno scavalcamento di campo per usare il dialetto del cinematografo. Con la mente smaliziata dei nativi digitali, quel qualcosa di irregolare, di mostruoso, covato sotto la carta da parati di case calde e accoglienti viene fuori – da Stranger Things a It – per prendersi l’anima. E lo fa secondo le forme fissate da un immaginario senza più metafore: dall’incipit con il clown/squalo nella discarica a fare da lupo di Cappuccetto Rosso al finale, dove i rimandi all’aliena madre nel covo sono fortissimi, con quei corpi sospesi dentro un cono di luce (il raggio aspirante di una possibile astronave: e del resto, tra le ipotesi dell’origine di It non c’era anche quella extraterrestre?).