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Isola 10
Ci sono piccoli gesti, significativi quanto i grandi atti di eroismo. La condivisione di un frutto con coloro che hanno fame, una testimonianza scritta su una pietra, l'insensato buonumore nel bel mezzo del disastro. A queste cose si aggrappa l'umanità per non soccombere, sembra dirci Isola 10, il nuovo film dell'engagé sudamericano Miguel Littin (El Chacal de Nahueltoro), visto in concorso al Festival di Roma nel 2009.
E' la storia - tratta dalle memorie di Sergio Bitar, già ministro delle miniere del governo Allende - di un gruppo di prigionieri, tutti ex esponenti di spicco della classe dirigente cilena, e della loro esperienza nel durissimo campo di concentramento allestito dai golpisti di Pinochet. L'isola, situata nello stretto di Magellano, è inospitale, il clima rigido, tracce di vita zero. I prigionieri spogliati di tutto, persino del "nombre" (ciascuno viene ribattezzato con un numero accanto al nome dell'isola). Gli aguzzini colpiscono col bastone, urlano, odiano, fiaccano volontà. Forse uccidono anche. Nulla di nuovo comunque rispetto al triste filone carcerario, niente che non si sia già visto (le persecuzioni perpetrate dall'iniquo regime di Pinochet peraltro erano state raccontate con maggiore vigore da Costa Gavras nel 1982, Missing). Ma Littin, pur non dimenticando gli oppressori e le ferite della storia (come attesta il frequente ricorso ai documenti di repertorio), preferisce inquadrare altro e raccontare quello che è sfuggito pure ai segretissimi archivi: la decenza di un gruppo di uomini che seppero non arrendersi di fronte a una pena più grande di loro. Il punto di vista si frantuma nella molteplicità dei loro gesti, nei piccoli atti d'amore a cui si piegano a poco a poco persino i carnefici (ed è questa indubbiamente la svolta migliore proposta dal film), per ricomporsi nel finale in un'immagine ideale della "dignità", che abbraccia realtà e invenzione, passato e futuro, la storia - il sacrificio di Allende - e il privato - il toccante passaggio di testimone da padre in figlio del finale.
Una lezione di vita sostenuta da un gruppo di splendidi interpreti, capaci da soli di sopperire alla penuria di cambi di registro (il film pecca di una certa uniformità narrativo-stilistica) e di infondere autenticità a una vicenda sfiorata, ma non travolta, dal ricatto della retorica.