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Iron Man 2
Anche senza 3D, facile che bissi il successo al botteghino: per la sfacciata fortuna della Marvel al cinema (fa eccezione il mezzo fiasco di Hulk, su cui ha inciampato prima Ang Lee, poi Leterrier), per la rendita garantita dal primo episodio, per le fiammanti ammucchiate di metallo, aerodinamica e palladio che faranno felici carrozzieri futuristi e amici dei robot. Non manca poi l'allegria delle scazzottate da saloon, la presa in giro dei potenti, le musiche degli intramontabili AC/DC, una combriccola di adorabili canaglie (Robert Downey Jr., Mickey Rourke, Sam Rockwell più cameo di Samuel L. Jackson) e tutine aderenti, strette attorno ai curvoni di lady Scarlett (Johansson).
Cosa chiedere di più a questo Iron Man 2? Il giocattolone non sarà un delicato bijoux per fini esteti, ma accompagnato a cola e popcorn rende servizio agli spettatori disimpegnati del weekend. Tutti d'accordo. Eppure qualche bacchettata sulle mani del coraggio va data. Se per tradizione un sequel è inferiore al precedente (e questo sequel - più farraginoso, lento e prevedibile del primo film - la rispetta ampiamente), qui la delusione è più ampia, proporzionata al numero di ipotesi fallite che l'operazione sciorina: ci riferiamo agli spunti di sceneggiatura, idee potenzialmente buone per intraprendere direzioni meno consuete, neuroni latenti di un blockbuster annunciato. L'inizio è promettente. Stark (Downey Jr.) - magnate dell'industria delle armi - fa outing, rivela l'identità di Iron Man e si espone al pubblico encomio e ludibrio, a seconda dei casi. La gente lo venera, ma senatori e generali vorrebbero sottrargli la patria potestà sull'arma che garantisce l'incolumità della nazione. Insomma sin dall'incipit la sceneggiatura pone una serie di questioni che avrebbero meritato altro sviluppo: la caduta del vincolo di segretezza (prerogativa di quasi tutti i supereroi), il movente narcisistico dietro le gesta di Stark, il rapporto con la celebrità e il potere politico, il monopolio della pace.
Nella battuta più riuscita del film Stark rivendica davanti alla commissione di senatori di aver "privatizzato la pace". Non è un'affermazione ingenua perché chiama in causa fondamentali principi di natura etica, filosofica e giuridica. Si può delegare la pace al solo monopolio delle armi? Si può affidare tale monopolio alla discrezionalità di un unico soggetto privato? E in casi come questi, cosa deve prevalere: la garanzia del privato o il bene pubblico? La faccenda è più seria di quanto un blockbuster hollywoodiano voglia farci credere. Il problema afferisce la stessa natura della democrazia americana, le fondamenta su cui poggia, le sue radici. Si profila un problema di paternità molto più ampio della semplice distinzione manichea suggerita dal film, quella tra padri giusti e sbagliati, buoni e cattivi maestri, americani (il genitore di Stark) e russi (il papà del villain Mickey Rourke, grande attore sfruttato male come la Johansson). Postulando poi l'ereditarietà dell'etica, Iron Man 2 scivola in paradossi teorici di cui neanche si accorge. Determinista fino al midollo, lo script non prevede mai il sovvertimento dei ruoli, al limite un po' di divertito biasimo (quando stigmatizza alcuni vizietti di Stark, come l'ego smisurato e l'alcol).
Stessa faciloneria anche con l'altra tematica del film, l'ibridazione uomo-macchina: si scopre che il palladio che alimenta Iron Man avvelena il corpo del suo utilizzatore, Stark. Che Hollywood voglia mettere alla berlina l'adesione acritica alla cibernetica? La filosofia del progresso? L'onnipotenza dei suoi Superman? Ovviamente no. Sul dubbio prevale la fede cieca, la complessità dei fenomeni aggirata dal teorema ideologico. L'America è il progresso, il progresso è forza, la forza garantisce la pace. E la scusa? Non è un trattato, ma un cinefumetto. Replica: non lo era anche il più audace e riuscito Cavaliere oscuro di Nolan? Obiettivamente, si poteva fare di più e di meglio. Ma per Hollywood probabilmente si è fatto già abbastanza. La parola, ora, passa al box office.