“Ognuno di noi è un po’ disabile nel suo piccolo. La normalità non esiste in questo mondo”. A dirlo è Cristiana, una donna bipolare e con un ritardo mentale, e in sintesi è questo il messaggio del film scritto e diretto da Dario D’Ambrosi, presentato fuori concorso al Torino Film Festival e in sala il 7-8-9 ottobre con Notorious Pictures.

Il titolo è una domanda: “Io sono un po’ matto... E tu?”. La risposta è nella saggia affermazione di Cristiana e nel vedere tutte le persone con disagio mentale che fanno parte della Compagnia Stabile del Teatro Patologico (fondato dallo stesso D’Ambrosi nel 1990) che cercano di risolvere le proprie ansie e paure attraverso la teatro-terapia. Tutti protagonisti al fianco di attori professionisti come Claudio Santamaria, Raoul Bova, Stefano Fresi, Claudia Gerini, Edoardo Leo, Vinicio Marchioni, Marco Bocci, Stefania Rocca, pronti a confessare con ironia e sincerità i propri tic e le proprie manie sperando che questi “tutor psichiatrici” riescano a risolverli.

Da colui che soffre di rupofobia e teme lo sporco a tal punto da arrivare a lavarsi le mani più di 260 volte al giorno, alla ludopatica (Gerini), ossessionata dal gioco (in Italia sono 1,5 milioni e solo 12mila sono in cura) fino al balbuziente (Marchioni), a chi soffre di insonnia (Bova) e a chi è claustrofobico (Leo). Un piccolo glossario (c’è da dire fin troppo schematico e sintetico, il film è stato realizzato in sole 24 ore e si vede) di tutti i problemi e disturbi che riguardano ognuno di noi. Il risultato è in parte semplicistico e il rischio della banalizzazione e del restare sulla superficie della questione è dietro l’angolo. D’altronde la chiave di lettura che ha voluto dare D’Ambrosi è quella ironica surreale e tragicomica. E parzialmente funziona anche, magari arrivando ai ragazzi e ai giovani delle scuole, dandogli una panoramica veloce del vasto e difficile mondo del disagio psichico e sensibilizzandoli su un tema troppo spesso stigmatizzato e trascurato (la chiusura con il brano "Zitti e buoni" dei Måneskin proprio questo sembrerebbe suggerire). Ma allo stesso tempo purtroppo il film di D’Ambrosi è un’occasione persa. Meno spazio ai volti noti e più spazio ai suoi “mattacchioni”, come li chiama lui, nonché ai suoi incontri con loro e al suo metodo che insegna a gestire le proprie patologie sarebbe senza dubbio stato più stimolante e arricchente per noi spettatori.

Comunque l’intenzione alla base rimane ed è encomiabile (in più i ricavi del film sono destinati alla ricerca scientifica nelle neuroscienze): fare uscire queste persone che soffrono di epilessia, depressione, disturbi ossessivi-compulsivi e ritardi cognitivi dalla propria solitudine e dalla propria bolla. Anche perché i numeri parlano chiaro: su quasi 60 milioni di italiani, ben 17milioni convivono con un disturbo psichico (lo stesso D’Ambrosi è stato internato nel manicomio “Paolo Pini” di Milano per tre mesi). Come dire, non sono pochi. Quindi chiunque “della follia non ha paura e si sporca le mani” come D’Ambrosi è davvero ammirevole.