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Io sono tuo padre
Io sono tuo padre, ovvero come sprecare un gran soggetto.
Storia vera di duecentomila africani (senegalesi, tunisini, algerini, marocchini) strappati alle loro placide valli per farsi scannare sul fronte della Prima Guerra Mondiale con lo stemma francese addosso, Tirailleurs (titolo originale del film presentato in Un certain reguard 2022) di Mathieu Vadepied si rivela presto un film spompo, senza energia discorsiva, né magniloquenza visiva: scarnificato nelle azioni, minimalista nei dialoghi, vaporizza presto il pathos e la straziante grandezza delle premesse.
Nel 1917, Bakary e Thierno, padre e figlio, allevatori di buoi, sono catapultati dalle distese africane nelle fradice trincee della Grande Guerra, obbligati a combattere per quella Francia che ha devastato la loro comunità. Se Bakary, però, fa di tutto per disertare il plotone, cercando aiuto in un cuoco prima, in uno trafficatore d’essere umani poi, il giovane, inesperto Thierno è presto folgorato dal potere delle armi. Si getta, impavido, nei campi minati, si guadagna la fiducia dello scriteriato tenente Chambreau. Diventato sergente e subordinando il padre ai suoi ordini. Il dilemma tra i due, allora, presto si fa radicale e ineludibile: la gloria in armi o la famiglia, la Francia (che promette cittadinanza, soldi e benessere...) o l’Africa pacifica e tribale.
Sul crinale del paradosso famigliare, Vadepied bombarda l’unità della famiglia con le granate della Storia per puntare il dito contro le tante -magari sconosciue ma comunque imperdonabili – devastazioni del colonialismo.
Ma l’asciuttezza del passo narrativo che smarrisce presto ogni grandezza epica dello sforzo, pur tenendo in piedi il dilemma psicologico, perde fluidità e raccordo tra ambienti ed emozioni. Vadepied non si cala mai veramente nelle viscere dei conflitti, li sogguarda a distanza di sicurezza e i personaggi rimangono a lungo come congelati, ligi ai loro compiti tematici, sospesi nella fotografia vaporosa di Alexandre Desplat, ingabbiati in dialoghi (doppiati) generalizzanti.
Tutto, allora, ha un sapore d’irrisolto, d’intentato, di critica urlata sì, ma a mezza bocca per questo war movie che spesso si aggrappa senza spessore reinventivo ai pilastri del genere: ecco allora sfilare gli addestramenti sfiancanti di Kubrick; le trincee ammassate di Mendes; i campi minati di Gibson; il nemico invisibile di Spielberg; gli strazi interiori di Berger, l’impotenza metafisica dei guerrieri di Malick.
Come se non bastasse, l’anticolonialismo delle premesse, in coda si stempera anche in una vena insopportabilmente consolatoria, a tratti quasi giustificazionista delle barbarie: come a dire – o se non dire, sussurrare, lasciar intendere e assolvere - che, in fondo in fondo, i pacifici allevatori costretti a farsi ammazzare in Europa per la gloria di una patria ignota, sono degli eroi da celebrare.