PHOTO
Io sono la fine del mondo
Una commedia che funziona bene al botteghino dice sempre molto dello stato delle cose, del cinema e più in generale del paese, ma c’è un equivoco: Io sono la fine del mondo non è una commedia. È una tragedia travestita da commedia, un agnellino mascherato da lupo cattivo che alza la voce per evitare di ascoltarsi, indica ipocrisie e malcostumi sentendosene assolto perché onesto e, eccoci qua, politicamente scorretto.
Un’espressione ormai completamente svuotata di senso, ridotta a spauracchio per resistere a quella cultura woke che starebbe devastando la comicità italiana e non solo (qualcuno direbbe che il mondo sta andando in un altro verso, come recita più o meno il titolo di un volume che non citiamo per non dare visibilità né indicizzazione al suo autore).
La fortuna di Angelo Duro, un comico che da anni riempie i teatri e dilaga sui social, piace ai boomer e ai ragazzini, ha un registro unico (schifa tutto e tutti), non è dovuta solo alla pretesa di dire “le cose che non dice nessuno” ma anche alla ritirata di quei comici più grandi di lui (per anagrafe ed esperienza) che preferiscono lamentarsi che “non si può dire più niente”. Al podcast Tintoria, Martufello, non esattamente un raffinato umorista bolscevico, ha emesso la sentenza definitiva: “Non è che non si può dire più niente, è che non lo sapete dire”.
Evidentemente Angelo Duro non lo sa dire ma – i risultati parlano per lui – sa come farlo: la mimica facciale fissa, il tono più sprezzante che cinico, la residenza su un piedistallo, la complicità con il pubblico simulando disprezzo. Ma un film è un’altra cosa e non basta affidarsi a Gennaro Nunziante che, dopo il glorioso poker con Checco Zalone, non ha più trovato uno sparring partner all’altezza di quel gigante.
Le due piccole intuizioni iniziali restano tali (il lavoro bizzarro ovvero accompagnare a casa gli adolescenti ubriachi; e il Ferragosto che potrebbe alludere alle angosce di Un sacco bello) e la storia si sviluppa per inerzia, ripetendo a oltranza lo stesso schema portandolo all’esasperazione e evitando accuratamente di affrontare il vero problema del film: possibile che nessuno reagisca alle meschinità, alle offese, allo squallore di un disadattato? Possibile che una donna misteriosamente attratta da lui continui a frequentarlo dopo una valanga di insulti rivolti al figlio? Possibile che nessuno gli consigli l’unica cosa normale, cioè farsi aiutare da un professionista della salute mentale?
Monocorde, monoespressivo e monotono, Duro è un personaggio piatto, programmaticamente contro tutto (la retorica della famiglia, il lessico amoroso, il rispetto della disabilità, il vivere civile) e ottusamente meccanico nel suo sciorinare un repertorio che crea più imbarazzo che disagio, corredato automaticamente di parafrasi e morale. E, nonostante tre nomi in sede di montaggio (il regista e il protagonista, che sono anche sceneggiatori, più Pietro Morana, che il montatore lo fa di professione), ci sono una fiacchezza, una mosceria, una fatica ben espresse dal rattoppo approssimativo di scenette altrimenti recuperabili nel flusso social.
Io sono la fine del mondo è il manifesto del politicamente scontato: sono diventato quello che sono per colpa degli altri, perché gli altri fanno schifo, quindi la vendetta è il mio risarcimento ed è inutile che vi lamentate perché fate schifo. Tant’è.