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Star Trek - Into Darkness conferma le virtù e i limiti del J.J. Abrams regista. Eccellente direttore d'orchestra al lavoro sul repertorio di altri, il creatore di Lost prosegue il suo percorso di crescita senza inventare nulla ma riportando ogni cosa al loro antico splendore. Proiettando sul proprio avvenire il faro del passato. Nelle mani di J.J. Abrams la "Nuova Hollywood" degli Spielberg e dei Lucas si riscopre classica, segmento mitico di una storia lontana, non abbastanza però da essere dimenticata né troppo poco perché non susciti nostalgia.
Del resto, basterebbe rileggere i titoli della sua filmografia per riconoscergli una spiccata vocazione archeologica (mentre si prepara a confrontarsi con il tabù di Star wars), da non confondere però con il complesso della mummia. Il suo cinema è antico, non antiquato. Come quelle vecchie macchine d'epoca tirate a lucido e rimesse in carreggiata. Salirci a bordo è uno spasso.
Se il primo Star Trek era servito soprattutto a rispolverare l'icona, effettuando un calco della memoria sulla pelle di un moderno immaginario, questo sequel scava dentro un modello dotato di una sua fisionomia. Stavolta non abbiamo bisogno di presentazioni: con il capitano Kirk (Chris Pine), Spock (Zachary Quinto) e gli altri abbiamo già familiarizzato. Questo permette ad Abrams e al team di sceneggiatori (Kurtzman, Orci e Lindelof) di costruire un giocattolo più complesso, migliorandone la resa ludica - c'è più azione e spettacolo del precedente e un'immersione maggiore grazie all'uso non banale del 3D - e ampliando lo spettro dei temi affrontati. Nomen omen, Into Darkness è meno chiassoso e burlesco del primo ma rivela di contro un'insospettata vena umanista e uno sguardo più maturo, l'occhio attento a questioni da sempre dibattute nella cultura americana come la paternità (tre almeno le figure paterne del film), la leadership, la lealtà e il lutto.
L'equipaggio dell'Enterprise deve vedersela stavolta con un un nemico più infido, il loro cuore di tenebra, che Abrams delega metaforicamente alla figura di Khan (l'ottimo Benedict Cumberbatch), terrorista e superuomo, campione dell'ambiguità e della manipolazione, minaccia di distruzione della nostra specie tanto concreta quanto simbolica: del resto, sembra chiedersi e chiederci Abrams, cosa resterebbe di noi una volta perduta la bussola morale, il fondo e l'orizzonte di valori che ci ricorda chi siamo?
Si può forse rimproverare al nuovo Star Trek un approccio ingenuo, persino elementare, ma stiamo comunque parlando di un ottimo blockbuster non di un trattato di filosofia. Da questo punto di vista c'è poco da obiettare: confezione di lusso, cast all'altezza, battute fulminanti e una drammaturgia con il metronomo.La chiave dell'operazione è proprio il ritmo, il fraseggio morbido e pulito del montaggio, il movimento fluido della macchina da presa, una messa in scena che sembra dettata dagli archi e dai tromboni della magnifica colonna sonora di Michael Giacchino.
Abrams ci regala un'esperienza di visione senza gravità, facendoci fluttuare nello spazio come dentro a una campana di vetro. La sua mano ci culla, disegnando curve di una molle deriva.Riassaporiamo il piacere infantile del cinema. Felici e narcotizzati, dimentichiamo: dove siamo e che cosa abbiamo davanti. E il naufragar m'è dolce in questo mare.