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Inside Out ha raggiunto l’obiettivo che si pongono tutti i film: non solo incastonarsi nell’immaginario ma costruirlo. Perché, sic et simpliciter, una cosa così non s’era mai fatta prima: entrare nella mente di una persona (Riley, una preadolescente), dare forma alle emozioni (le cinque di base), assistere alla definizione di una personalità nei termini di un’avventura formativa. Tra gli apici del progetto industriale, artistico, intellettuale e commerciale della Pixar, pensato su misura di bambino e rivolto a tutti i pubblici, usato per spiegare ai più piccoli gli elementi della psicologia, ha trovato un sequel solo nove anni dopo l’uscita del prototipo (Kelsey Mann sostituisce Pete Docter in regia), a testimonianza della difficoltà di restituire l’aureo equilibrio (viaggio interiore, allusione fantascientifica, coming of age, intensità dramedy, stilizzazione).
In fondo era già tutto previsto: Riley sta crescendo, ha compiuto tredici anni, coltiva amicizie, è pronta ad andare al liceo. Funziona così, è la vita che continua: le uniche a non averlo messo in conto sono Gioia, Tristezza, Rabbia, Paura e Disgusto, le sue cinque emozioni di base, completamente impreparate quando nel loro quartier generale rimbomba l’allarme “Pubertà”. Improvvisamente subentrano nuove emozioni, Ansia, Invidia, Noia (Ennui, alla francese) e Imbarazzo, e lo spazio si fa troppo piccolo, soprattutto perché una di loro, Ansia, è talmente convinta che Riley debba cambiare da far fuori sia le cinque emozioni che quel “Senso di sé” così faticosamente costruito unendo ricordi e sentimenti.
Inside Out 2 procede, quindi, seguendo due strade: da una parte, la lotta di riconquista del territorio da parte di chi ne è stato allontanato, con Gioia e compagni alle prese con la fuga da un caveau (notevole l’incontro con Bloofy, personaggio bidimensionale che arriva dalle trasmissioni divulgative per la prima infanzia, ricordo “rimosso” dalla piccola Riley), la sfida alle intemperie (straordinari gli effetti della scoperta del sarcasmo, la traversata sul broccolo del flusso di coscienza, la parata dei lavori dei sogni) e i tentativi di tornare a casa; dall’altra, il racconto di quanto sia difficile valicare la “linea d’ombra”, trovando in Ansia un personaggio drammatico (lo spannung nel prefinale è lancinante) che ben definisce quell’inedito e misterioso orizzonte di angosce, aspettative, eccitazioni e tormenti così emblematico dell’età di Riley (con un toccante “presagio” di panico).
È il sequel su misura della GenZ, ma anche un istruttivo esempio di racconto di formazione dall’interno, un viaggio che ha come approdo l’inclusione e l’integrazione e non la separazione e l’assolutismo propugnati da Ansia (a sua volta il film accoglie il suo racconto di formazione). Meno dirompente e spericolato del prototipo (la chiave d’accesso è ormai a portata di tutti), Inside Out 2 è l’espansione appassionante e profonda di un universo potenzialmente infinito (ce lo ricordano le emozioni degli adulti), dove a funzionare è anche il contorno, tra allegorie (la pioggia d’idee), simboli (le sfere) e camei (su tutti l’enorme Profondo Oscuro Segreto e la memorabile Nostalgia, emozione prossima ventura). Menzione speciale per il doppiaggio italiano, tra l’esperienza dei professionisti (citiamo almeno la leggendaria Melina Martello che dà voce a Tristezza) alle sorprendenti prestazioni degli occasionali (brava Pilar Fogliati come Ansia).