PHOTO
Ingeborg Bachmann, chi era costei? Tra le tante meraviglie obliate (almeno in Italia) del Novecento, è bene ricordare Ruth Keller, austriaca di nascita, tedesca di adozione. Saggista, traduttrice (Ungaretti, qui incarnato da Renato Carpentieri, dopo Verga in La Stranezza), amatrice nevrastenica e passionale. Di più: eroina avanguardista, indipendente, egotica, meditabonda, voyeurista, poliamorosa. Insuperata alla macchina da scrivere, adulata dai lettori, azzimata in abiti floreali, consumata più dagli amori possessivi che da sigarette, pillole e squilibri mentali.
È (solo) questo Bachamann secondo Von Trotta che si cimenta con un nuovo bio-pic al femminile (Hanna Harendt, Rosa L.) spaccando il film in due strisce temporali.
In principio galeotta fu Parigi: negli anni Venti Ingeborg vi incontra Max Frisch (Ronald Zehrfeld). Ed è subito amore a colpi di letture, poesie e carteggi. Ma Zurigo e la gelosia di lui presto diventano una un prigione per lei. Così la poetessa evade, scrive e presenta in mezza Europa – scegliendo Roma, via Giulia come centro di gravità permanente - che la celebra mentre lo scrittore-architetto si macera di gelosia in Svizzera. La passione si spegne presto, ma l’inquietudine no. Perciò Ingeborg si spinge fin nel deserto con Adolf Opel per ridare smalto e nuovi orizzonti alla sua vita (amorosa).
Solida biografia psicologica, alla lunga diventa polverosa e, diciamolo pure, paludata nel doppio binario spazio-temporale. Dopo un avvio psico-onirico alla Leone – uno squillo di telefono in un corridoio buio, l’eroina che risponde, un’agghiacciante risata di rimando, il trillo che si arrampica nella sua mente-, non lievita, non trasforma la gravitas in actio, ma rimane prigioniera della sua ristrettezza monotematica: oltre l’interiorità dell’eroina - insieme fragile e brillante –, oltre lo statico ping-pong di montaggio tra i due percorsi amorosi, oltre il caschetto platino di Kreips e le sue letture avide sul divano, qualche cenno al Gruppo 47 e poco altro. Insomma, più batticuori che versi. Più fama che letteratura. Più psicanalisi che narrazione. Bachmann secondo Von Trotta vorrebbe essere pioniera di una nuova femminilità, ma, strappata al Novecento, si strugge e si definisce solo in funzione (dell’amore) degli uomini.
Presto, così, si fa più interessante la forma del contenuto, coinvolge più la solita economia registica della cineasta (sì, si può fare ancora un film con una lenta panoramica, un dialogo, una messinscena certosina e un paio di stacchi) che la storia stessa.
Ingeborg Bachmann diventa, così, un’operazione riuscita a metà, che non sfrutta tutto il suo potenziale. A Von Trotta non manca il coraggio per narrare figure esemplari, ma documentazione e devozione stavolta non bastano a far brillare un film che diventa, scena dopo scena, prigioniero di sé stesso.