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Inferno (2016), una foto di scena
Era dai tempi di Ritratto di signora (1996) che Firenze non ospitava un'importante produzione internazionale, anche se nel caso di Inferno, terzo adattamento big screen di un romanzo di Dan Brown, il rapporto con la città travalica i normali vincoli di ospitalità. La città di Dante non è solo un personaggio tra i personaggi, come pure ha dichiarato il regista Ron Howard, ma l'occulto gps delle sue rotte narrative e la mappa ideale per leggerne i motivi di fondo.
Non bisogna farsi confondere dal finto tema portante della vicenda - il problema della sovrappopolazione che nel delirio di un pazzo può essere risolto solo attraverso un genocidio virale programmato - perché come sempre nei testi di Dan Brown, e nelle sue trasposizioni cinematografiche, la questione di fondo resta esoterica e riguarda il rapporto commutativo tra conoscenza e segreto (o se preferite, visto che parliamo di cinema, tra apparenza e verità). La convinzione cioè che il mondo sia enigma e l'arte il codice per svelarlo. Dopo Da Vinci (Il codice) e Bernini (Angeli e demoni) tocca a Dante e ai nove cerchi dell'Inferno disegnati dal Botticelli fornire di volta in volta la chiave d'accesso al plot, uno dei più deboli peraltro di tutta la bibliografia di Dan Brown.
Di questa trama intricata di frammenti poetici e indovinelli, suggestioni pittoriche e arcani disegni, Firenze è la culla e il cuore: il labirinto dove bellezza e orrore si compenetrano, confondono, rapiscono a ogni passo, e la perfetta scena allegorica, con le sue porte nascoste, i passaggi segreti, gli infiniti giochi di specchi e le innumerevoli forme di vita artistiche che attraversano, lacerano, raddoppiano lo spazio visivo. Da una parte Inferno si alimenta quindi di Firenze, dall'altra gli rende il favore alimentandone il mito, restituendone cioè una dimensione "spettacolare" (nel senso letterale di "procurar meraviglia") che conferisce nuovo splendore alle sue cartoline, da Ponte Vecchio a Giardino di Boboli. L'operazione coglie pienamente l'opportunità territoriale di scambio simbolico, massimizzando l'apporto della location in termini di esotismo e fascinazione e quello del set in favore della valorizzazione turistica della città.
Là dove il film convince meno (ma non è una novità per la premiata ditta Dan Brown/Hollywood) è invece nella sua rozza scrittura, dove il ricorso alla cultura alta, pieno di strafalcioni e bugie ma pur sempre meritoria nella cornice di un blockbuster, è anche strumentale alla suspense (come se la possibilità del "thriller", del "giallo", giustificassero un interesse per l'arte altrimenti senza cittadinanza), e l'alternanza di colpi di scena e rivelazioni finisce per essere la classica cortina fumogena di un'inventiva modesta. Sotto l'aspetto drammaturgico, Inferno replica il principio elusivo del libro, imponendo a uno spettatore che resta sempre fuori dall'intrigo quesiti e deduzioni senza soluzione di continuità, difficilmente realizzabili, a quel ritmo e con quel grado di intuizione, per una persona normale.
Ron Howard dirige con mano sicura anche se i limiti di una regia senza visione emergono tutti quando deve tradurre in immagini oniriche frammenti dell'Inferno dantesco. Tom Hanks ha avuto ruoli migliori in carriera ma è pregevole come sempre. Bene anche i suoi compagni di set, da Felicity Jones che porta in dote alla saga un po' della sua grazia antica e misteriosa a Omar Sy, finalmente nei panni di qualcuno che non deve ridere per forza ogni due minuti.