Presenza ormai saltuaria, quella di Gianluca Maria Tavarelli sul grande schermo (mancava da dieci anni). Ma, se sul piccolo si distingue e si difende (in principio fu Pietro Valsecchi a coglierne il solido mestiere affidandogli i biopic su Paolo Borsellino e Maria Montessori, poi in Rai tra Le cose che restano, il Camilleri Telematic Universe, Maltese, Chiamami ancora amore), al cinema rivendica autonomia e audacia, memore delle origini indie (Portami via nella Torino ai margini), di saper ciondolare tra la commedia e il mélo (la ricognizione di un amore) e restituire l’amara leggerezza dei vinti (Qui non è il paradiso, Liberi).

Con Indagine su una storia d’amore si riallaccia idealmente al citato cult di fine millennio, non tanto per aggiornare quel discorso amoroso costituito da dodici frammenti lungo diciotto anni. Sì, anche qui il tempo abbraccia sempre una vita giacché la coppia formata dai protagonisti sta insieme da sempre, amandosi mentre si diventava grandi insieme (entrambi siciliani), si studiava per raggiungere un sogno comune (a Roma per fare gli attori), si immaginava un futuro scritto dal destino (nonostante un tradimento di lui). Ma il tempo non è più quello di una volta e non c’entra la nostalgia (di cosa, poi?): c’entrano la frantumazione del privato, lo svuotamento dell’intimità, la rappresentazione come trappola (“Le usate confidenze di malattie o di sesso dove ciascuno ascolta sol sé stesso”, diceva Guccini in una canzone cara a Tavarelli).

Indagine su una storia d'amore
Indagine su una storia d'amore

Indagine su una storia d'amore

Tra la canzone della vita quotidiana e quella dei vecchi amanti, Paolo e Lucia ne azzardano una pop(olare), nel senso della televisione tendente al trash: per affrontare la crisi che dal ménage di coppia si proietta in quello professionale, decidono di partecipare a un programma televisivo in cui si confessano (agli autori), si espongono (alla telecamera), si vendono (al pubblico), si svelano (a noi). È teoria e pratica della classe disagiata, di cui Paolo e Lucia sono esponenti ideali (la generazione allevata nella convinzione di poter migliorare o mantenere uno status ha scoperto all’improvviso che non c’era più niente da conquistare o tutelare), dove la difficoltà è tale che, in mancanza dei soldi, la valuta per posizionarsi nel mondo è l’amore.

La televisione dei sentimenti e dei pentimenti, più Real Time che Maria (De Filippi), è specchio deformante solo agli occhi dei pigri, piuttosto cartina di tornasole di relazioni consumate tra post su Instagram e falò di confronto: le discussioni tra Paolo e Lucia non sono molto lontane da quello schema, con la visione della confessione dell’uno che innesca lo spaesamento dell’altra e la discussione in cui vomitarsi tutto addosso. Tavarelli, che saggiamente crede nella commedia, restituisce con ironia e amarezza questo spaccato di vita privata gettata in pasto al pubblico. Si affida a spazi che si trasfigurano in macchine di finzione (teatro o fiction o doc poco cambia) e a un attore (Alessio Vassallo) e a un’attrice (Barbara Giordano) che nell’interpretare un attore e un’attrice garantiscono sia un coefficiente di credibilità che un curioso discorso metatestuale. La fragilità, a volte, fa capolino e il gioco, qua e là, mostra la corda, ma Tavarelli recupera con malinconia, tenerezza, autenticità. E ci dice qualcosa su cosa siamo diventati.