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"Si può vincere una guerra in due
E forse anche da solo
E si può estrarre il cuore anche al più nero assassino
Ma è più difficile cambiare un'idea..."
DubitiamoChristopher Nolan abbia mai ascoltato Apapaia dei Litfiba, canzone che quasi 25 anni fa veniva incisa nel doppio album "17 re". Ma alla base del suo nuovo film, scritto "in solitaria" come non avveniva dai tempi di Following (1998), c'è anche questo, l'idea di poter aggirare, "estrarre" il "resiliente" più ostico al mondo, le idee, raggiungibili in una dimensione altra, onirica, caratterizzata a sua volta da ipotetici, infiniti livelli.
Nuova frontiera dell'hackeraggio mentale, luogo fino ad oggi impossibile da scardinare, Inception (e il titolo è lì ad annunciarlo) non si accontenta di mostrare come sia possibile venire in possesso di qualsiasi idea, ma costruisce intorno all'azzardo di "impiantarne" una nuova la più ardita e suggestiva delle metafore cinematografiche.
Sogno, idea e rappresentazione si fondono, nella continua "creazione" di mondi, nature e architetture in cui far muovere personaggi consapevoli e non, manipolatori e manipolati: cambiano le coordinate spazio-temporali, i minuti "reali" si dilatano esponenzialmente, facendosi eternità all'ultimo livello di sogno, quel limbo dove la mente umana si perderà definitivamente. E dove Dom Cobb (Leonardo Di Caprio), il ladro più abile ed esperto nell'arte dell'estrazione, ha tentato di confinare il ricordo più pericoloso e doloroso, quello dell'amata moglie Mal (Marion Cotillard). E' questo - insieme alla voce di Edith Piaf che canta Non, je ne regrette rien per riportare lui e la sua squadra in "superficie" - il perno intorno cui ruota l'intero corpo del film, spy-story contemporanea e futurista venata di un romanticismo straziante e senza via d'uscita.
Che Christopher Nolan, ancora una volta supportato dalle luci di Wally Pfister, dal montaggio di Lee Smith e dalle musiche (straordinarie) di Hans Zimmer, prepara, anche a costo di qualche necessario didascalismo, nei primi 40 minuti del racconto: dal tentativo di furto al potente Saito (Ken Watanabe), ben presto nuovo "datore di lavoro" ai danni del "bersaglio" Robert Fischer (Cillian Murphy), giovane prossimo erede di un impero multimiliardario, fino alla composizione del nuovo team con cui Dobb dovrà affrontare ciò che nessuno - così sembra - è mai riuscito a portare a termine, impiantare un pensiero. Almeno tre ulteriori livelli di sogno condiviso, dove far precipitare il sonno dell'ignaro Fischer, tre ipotetiche e illusorie realtà di senso da costruire insieme al "manovratore" (Joseph Gordon-Levitt), all'architetto Ariadne (Ellen Page), al "falsario" (Tom Hardy): l'attore principale è sempre lui, Cobb, minacciato però dalle incursioni sempre più prepotenti di Mal, "ombra" fatale e ingombrante quanto più a fondo saranno scavati i livelli dell'inconscio. Universo, quest'ultimo, che il regista di The Prestige e Il cavaliere oscuro lascia libero di confondersi innumerevoli volte con le altre dimensioni del film, sin dall'inizio del racconto, sorprendendo anche l'occhio più smaliziato nella scena che dà il la al momento forse più spettacolare dell'opera, con Di Caprio che illustra all'inconsapevole Ariadne le enormi potenzialità della sua mente: un'improvvisa esplosione, poi strade che proseguono sfidando le più elementari logiche della fisica e della gravità, nuovi specchi in cui riflettersi all'infinito o sgretolarsi, perdersi per sempre. Nel limbo di un presente senza tempo o in una visione che riporti lo sguardo a superare le barriere della verosimiglianza: proprio come nei sogni. Verso i quali è sì difficile fare ritorno, ma dai quali è impossibile fuggire.