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In the Fog
Un lungo pianosequenza segue l'incedere di una fila di prigionieri. Insieme a loro, ascoltiamo gli ordini impartiti dal comando superiore: d'ora in poi, chi si ribellerà al nazismo sarà giustiziato. E la stessa fine è riservata a chi dovesse aiutare i partigiani, che combattono per una "guerra già persa". Bielorussia, 1942. Sergei Loznitsa torna in concorso a Cannes due anni dopo il folgorante My Joy: la mano è riconoscibile - abbiamo contato poco più di 60 tra stacchi e dissolvenze (127 minuti la durata del film per una media di 2' di scene realizzate in pianosequenza) - anche se in questa occasione il racconto sembra nascondere meno cripticità rispetto al precedente. In the Fog è una marcia lugubre verso il definitivo inghiottimento dell'umanità: Sushenya (Vladimir Svirski) viene prelevato dalla propria abitazione da due partigiani, Burov (Vlad Abashin) e Voitik (Sergei Kolesov). E' accusato di aver tradito tre colleghi, operai della ferrovia come lui, catturati dai nazisti e giustiziati mentre lui è stato rilasciato. Nessuno sa come siano andate effettivamente le cose, ma il fatto che Sushenya sia stato prima imprigionato e poi lasciato libero, agli occhi dei compaesani, è già di per sé una condanna.
Loznitsa costruice il film "prelevando" dal contesto tre figure simbolo, "chiudendole" nell'impervia vegetazione di un bosco autunnale. Il presente si concentra sul destino di Sushenya, che finirà per incarnare quel barlume di speranza a cui sono affidate le sorti dell'umanità. L'uomo scampa per miracolo alla morte: il suo aguzzino, Burov, con il quale condivide gli anni dell'infanzia e della crescita, viene ferito da un commando nazista. Sushenya non fugge, gli presta soccorso. Lo carica sulle sue spalle. E così farà per l'intero tragitto che lo separa dalla fine. Da quel momento, conosceremo gli aspetti più significativi che hanno caratterizzato gli ultimi giorni dei tre uomini. Soprattutto, Sushenya racconta a Burov (in fin di vita) come andarono davvero le cose con i nazisti. E come, da quel giorno, avrebbe preferito esser giustiziato piuttosto che continuare a vivere sotto l'onta del tradimento: ma la condanna inflittagli dai nazisti - che gli avevano proposto una collaborazione segreta, rifiutata dall'uomo - è peggiore della morte.
"Mi conoscono tutti da sempre, come è possibile che mi credano capace di questo?" - chiede Sushenya a Voitik verso la fine del cammino. "In tempi come questi ognuno è capace di qualsiasi cosa per sopravvivere", risponde l'altro. Il quale, capiremo poi, per mettersi in salvo dai nemici non esitò a rivelare la posizione di una famiglia che fino a quel momento lo aveva aiutato. Ognuno è capace di qualsiasi cosa: non Sushenya, però. Che alla fine è l'unico a sopravvivere, come la speranza. Almeno fino a che la nebbia non lo inghiotta insieme a lei.