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Un operatore che non sa riprendere e immagini che non sono davvero tali perché dentro non c’è nulla. È significativa la partenza di In My Room di Ulrich Kohler perché mette in scena da subito un uomo che non ha un posto nel mondo e un cinema che non sa raccontarlo e il film parte da qui per raccontarli attraverso una metafora post-apocalittica.
Il protagonista non ha arte né parte, è tanto comune da sfiorare l’insopportabilità. Dopo la morte della madre malata da tempo però la sua vita cambia e non solo sua: resta infatti l’ultimo uomo sulla Terra e dovrà ricominciare da capo. Ma forse non sarà davvero solo: il regista, anche sceneggiatore, realizza un tardivo racconto di formazione attraverso una buona idea narrativa - ovvero il cambio repentino di registro - e cinematografica, ossia raccontare l’apocalisse coi toni del cinema naturalistico.
Idee con cui Kohler mette in scena la metafora dell’adolescente mai cresciuto alle prese con la fine delle proprie certezze, la scoperta dell’indipendenza, il bisogno di ricostruzione civile e sociale (la scoperta dell’altro nelle forme di Elena Radoncich) dopo il confronto con la morte. Kohler però prende fin troppo sul serio la sua metafora fino a dimenticarsela, a guardarne la superficie, rischiando di continuo la puerilità e il banale. E cascandovi più di una volta.
In My Room suggestiona e incuriosisce quando - nella parte centrale - mostra il rapporto con la natura e l’adattamento al nuovo mondo, quando poi segue i modi e gli schemi consueti perde di ogni credibilità e tensione visiva, arrivando al ridicolo nel mettere in scena frammenti di Arcadia abitati dai novelli Adamo ed Eva. Così Kohler in paradossale sintonia con il suo incipit si dimostra regista che nel film non ha un vero posto, autore di immagini che non possono trovarlo né inventarlo.