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In guerra per amore
1943, nel pieno della Seconda Guerra Mondiale. Arturo Giammaresi (Pif), siciliano, lavora a New York nel ristorante di Alfredo. Arturo ama Flora (Miriam Leone), ricambiato. Lei però è la nipote di Alfredo, nonché promessa sposa del figlio di un boss, tra l’altro braccio destro di Lucky Luciano. C’è un unico modo per scongiurare questo matrimonio forzato: chiedere la mano della ragazza al padre. Che però vive a Crisafullo, sperduto paesino in Sicilia. Che, guarda, caso, è l’imminente meta dell’esercito USA deciso a liberare l’Italia, e l’Europa, dal nazifascismo. E Arturo, che non ha un soldo, coglie al volo l’occasione, arruolandosi proprio alla vigilia dello sbarco: evento che cambierà per sempre la storia della Sicilia, dell’Italia e della mafia. Sì, perché per favorire lo sbarco i vertici dell’esercito americano chiedono a Lucky Luciano di intercedere presso i suoi amici mafiosi rimasti in Sicilia. E per ripagare questo aiuto il governo alleato affiderà loro ruoli chiave nelle amministrazioni locali.
In guerra per amore conferma quanto di buono il Pif regista (e attore) aveva già dimostrato con La mafia uccide solo d’estate: parlare di temi scottanti (la mafia) attraverso il filtro della favola, di un realismo magico che prova a rendere “contemporanei” fatti ed eventi storici ben circoscritti (lo spunto è dato dal Rapporto Scotten, redatto nel 1943 da un ufficiale americano che scrisse una relazione sul problema della mafia in Sicilia), adagiando il tutto sui binari della commedia, sia essa romantica o di costume, con qualche sprazzo di slapstick rafforzato anche dalla forte territorialità di alcuni personaggi e interpreti.
Non stupisce, allora, che i protagonisti abbiano lo stesso nome del film precedente (Arturo Giammarresi e Flora, con Miriam Leone stavolta, anziché Cristiana Capotondi), perché – ci sembra di poter dire – l’intento di Diliberto è proprio quello di costruire un macroracconto, una “saga”, che riportando all’oggi le radici (e lo sviluppo) del nostro malaffare riesce a spiegare meglio, e con più profondità di molti altri prodotti cosiddetti “alti”, i perché di molti (presunti) misteri che contraddistinguono l’Italia. Ambizione che era propria della nostra commedia migliore, quella dei Comencini (e Tutti a casa è qualcosa di più che una semplice ispirazione) e Monicelli, dei Risi e – naturalmente – Scola. Al quale, naturalmente, Pif dedica il film. E che, immaginiamo, avrebbe apprezzato (oltre all’opera nel suo insieme) quell’incredibile finale in cui il mafioso Don Calò, un ottimo Maurizio Marchetti, neoeletto sindaco dell’immaginario Crisafullo, spiega ai concittadini i fondamenti della novità denominata “democrazia”, un “pargolo che dobbiamo far crescere, aiutare, proteggere per evitare che si faccia male, perché a noi questi russi, questi comunisti mica ci piacciono…”. Mentre, su una panchina di fronte alla Casa Bianca, un soldato semplice attende invano una risposta dall’alleato americano.