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Imaginary © 2023 Lionsgate
Dopo le bambole assassine (Chucky, Annabelle, Megan) è l’ora degli orsetti di peluche. L’ora più buia non per i bambini ma per gli amanti dell’horror, a giudicare dagli esiti. Se Winnie-the-Pooh - Sangue e miele è stato il trionfatore degli ultimi Razzie Awards come il film peggiore dell’anno, è perché Imaginary non lo si era ancora visto. Diretto da Jeff Wadlow, è probabilmente uno dei punti più bassi della gloriosa Blumhouse (peggiore anche del recente Night Swim, che era già sotto il livello della decenza).
Che cosa succede alla factory di Jason Blum, tra le produzioni indipendenti più innovative e vincenti dei primi anni 2000? Tra impasse creativa e una sintonia con il pubblico meno forte che in passato, sembra entrata in una parabola discendente inarrestabile. L’ultimo colpo messo a segno risale a Get Out di Jordan Peel (255 milioni di dollari al botteghino globale e quattro candidature agli Oscar, di cui una andata a premio: la sceneggiatura originale), era il 2017.
Su questo piano inclinato scivola anche Imaginary. Titolo polisemico: c’è l’amico immaginario con cui parlano i bambini, l’insieme dei simboli e concetti presenti nella memoria collettiva; l’immaginazione congenita al sapere dei creativi. Il film utilizza il primo, arraffa come può il secondo, non è toccato dalla terza. La protagonista (DeWanda Wise) è una giovane autrice di graphic novel dell’orrore, più eccentriche che spaventose, alla Tim Burton. Ultimamente la vena creativa è un po’ a secco, dorme male, decide perciò d’accordo con il marito rocker – uno dei personaggi più insulsi della storia del cinema horror – di tornare a vivere nella casa d’infanzia con figliastre al seguito, un’adolescente ostile e una bambina traumatizzata ancora dalla separazione dei genitori. Sarà quest’ultima a imbattersi in un misterioso orsacchiotto di peluche di nome Teddy.
Abbiamo quel che abbiamo: la casa con giardino, la cantina, l’oggetto transizionale malefico, il trauma. Se l’infanzia si conferma terreno di coltura dell’horror, qui è anche il genere a regredire. Nemmeno i jumpscare sono da bollino rosso, tale è il livello grossolano dei dialoghi e del character design. Il resto è confuso e derivativo e il tema kinghiano della creazione che genera incubi buttato in vacca, complice uno sciagurato miscasting. Non sapendo bene dove andare a parare, si finisce nel sottosopra di Stranger Things, qui ribattezzato con psico-terminologia “Paracosmo”. Che è dove finiscono coloro che finiscono per credere alle proprie fantasie piuttosto che alla realtà. Vero, Jason Blum?