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A vent’anni da Scimmie come noi, libero adattamento de Il barone rampante di Italo Calvino, in cui raccontava gli effetti di un cataclisma che provocava la separazione di una tribù di scimmie in due comunità diffidenti l’una dall’altra, Jean-François Laguionie (classe 1939, uno dei maestri mondiali del cinema d’animazione), stavolta in tandem con Xavier Picard, trae un’ideale prosecuzione con Il viaggio del principe, ritrovandovi il protagonista in una storia profondamente allegorica che trasmette una lucida visione di cosa sia o non sia la civiltà.
A partire dal tema simbolico del viaggio come occasione di scoperta e di conoscenza dell’altrove, i registi mettono in piedi un film profondamente stratificato che riesce a dialogare con il pubblico usando la chiave romanzesca del journey, lo schema classico della favola e lo stile tradizionale di un’animazione terrigna e materica di matrice antirealistica.
La storia s’incardina sul giovane Tom, trovatello cresciuto da due scienziati, il professor Abervrach e la biologa Elizabeth, banditi dalla città dei Nioukos per aver affermato che esistono altri popoli (altre civiltà scimmiesche. Un giorno si accorge del corpo di un anziano naufragato sulla spiaggia. Trasportato nel decadente museo-laboratorio nascosto nella foresta dove alloggia con i tutori del ragazzo, il vecchio si rivela un Principe proveniente da un regno lontano, appassionato di invenzioni e in particolare di macchine volanti, desideroso di scoprire “nuovo mondo”. Intanto la coppia di ricercatori sogna di convincere l’Accademia della veridicità della loro tesi precedentemente rifiutata.
L’ispirazione dichiarata è rivolta ai drammi migratori contemporanei con tutti i temi che ne scaturiscono (la costruzione del nemico, l’accettazione dell’altro, la solidarietà tra i popoli), ma Il viaggio del principe trascende il presente per collocarsi sul piano dell’allegoria.
Un romanzo di formazione allo specchio – l’anziano Principe che esplora per fame di sapere, il giovane Tom che impara a osservare, capire, analizzare, avventurarsi – sull’educazione allo stupore e sul riconoscimento reciproco, che recupera le atmosfere dell’arte figurativa di fine Ottocento (le referenze principali sono Gustave Doré per restituire la città industrializzata del XIX secolo e Honoré Daumier come punto di riferimento per l’umanità della popolazione secondo un registro satirico).
In campo anche sensibilità legate all’attualità, compresa la critica alla società dei consumi orientata all’appagamento dell’esigenza personale e non collettiva in rapporto con la dialettica tra natura e uomo: la città, infatti, appare intrappolata tra l’espansione naturale di una foresta percepita come ostile e selvaggia e il vorace espansionismo urbanistico di una civiltà convinta di essere sola al mondo al punto da non rendersi conto di non vedere più il cielo perché oscurato dalle fronde. Molti momenti da antologia: educativo, senza retorica, e che classe.