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Uno dei punti di forza di Il talento del calabrone, opera prima di Giacomo Cimini, è la tipica cura formale delle produzioni della Paco di Arturo Paglia e Isabella Cocozza. C’è una buona costruzione della tensione, in questo atipico thriller milanese, ma lo scarto forse più determinante sta nell’atmosfera claustrofobica costruita dalle luci al neon di Maurizio Calvesi e nel ritmo spesso impetuoso garantito dal montaggio di Massimo Quaglia.
Due nomi di peso che sostengono e rafforzano l’esordio di Cimini conferendogli una confezione dall’ambizione internazionale (e, va da sé, la trappola midcult), complice anche la visione di una Milano notturna che nella sua singolarità urbanistica diventa sintesi di tutte le metropoli occidentali, dormienti e reticenti, che relegano all’oscurità gli aspetti perturbanti di uomini e donne apparentemente anonimi.
Sin dal titolo allusivo e a scatole cinesi, Il talento del calabrone si avvale di una struttura teorica molto forte e cerca continuamente di schivare gli ostacoli insiti a questi film-game dove la sfida tra i protagonisti si riverbera nelle attese e nel coinvolgimento degli spettatori. La sceneggiatura di Cimini e Lorenzo Collalti (anche lui debuttante nel lungometraggio) usa bene alcuni cliché del genere per definire i confini di un post-noir, incubo che dura lo spazio di una notte e si sfuma in una fantasia allucinata.
Per ansie e paure, il film sembra legato a un immaginario che oggi ci appare meno angosciante di quanto potesse sembrare appena dieci anni fa. Un uomo (Sergio Castellitto) telefona a un dj (Lorenzo Richelmy) che sta conducendo una trasmissione radiofonica in diretta: sta girando per la città in auto portando con sé un pericoloso ordigno esplosivo. Attraverso l’immagine di questo colto ed elegante sessantenne che pretende certe particolari esecuzioni di Bach e Beethoven, la figura del terrorista assume una dimensione ancor più inquietante, perché la sua azione criminale si rivela a poco a poco qualcosa di vicino a noi.
È interessante il modo con cui Cimini ha inserito la parabola di un borghese già illuminato e finito negli abissi della disperazione dentro la (auto)narrazione della città “che non si ferma mai”, la capitale morale espressa dalla voce esaltata di un dj fighetto che promette biglietti gratis, seduce fan e collaboratrici e si fa chiamare con pretenzioso diminutivo.
È sicuramente l’aspetto più intrigante di questo film che sconta uno sviluppo forse un po’ troppo prevedibile nelle sue connessioni tra causa ed effetto, nei legami (in)visibili tra passato e presente, nelle molte allusioni scientifiche. Non aiuta un commento musicale che eccede nel dare la punteggiatura alla tensione, ma ancora di più non sembrano ben gestiti gli istrionismi dei tre attori principali, chi in preda a rutilante gigionismo e chi tendente verso un involontario grottesco. Dal 20 novembre su Amazon Prime Video.