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Nanni Moretti in Il sol dell'avvenire
Nell’epoca del politicamente corretto, dell’omologazione, del dibattito in stile social, della retorica imperante, il cinema che prende posizione, che si schiera, fa quasi gridare al miracolo. “Io non sono imparziale”, diceva Nanni Moretti in Santiago, Italia. Non si possono più chiudere gli occhi, non ci si può più nascondere. Il grande regista nel nuovo Il sol dell’avvenire proietta lo spettatore nel suo mondo, non accetta compromessi, si rimette al centro dei suoi film. È come se l’alter ego Michele Apicella fosse tornato, più maturo, consapevole, e fa fatica a capire la nuova realtà che lo circonda.
Quello di Moretti è un assolo pieno di passione, a tratti malinconico, che a suo modo mantiene una vena testamentaria. In Mia madre si confrontava con la morte del genitore, in Tre piani era lui stesso a farsi da parte, a non essere più in scena, concedendosi solo una manciata di sequenze. Ma non eravamo già orfani in Habemus Papam, quando il pontefice si ritirava? Nei suoi film si è spesso ragionato sulla perdita, sulla mancanza. I protagonisti si sono sempre sentiti traditi da qualcosa: la fede, la politica, il destino beffardo, la disperazione nel vedere morire un figlio. Progressivamente Moretti è diventato un narratore, scegliendo quasi un passaggio di testimone.
In Il sol dell’avvenire è invece sotto le luci della ribalta, è il mattatore che stavamo aspettando. Ironico, cinico, caustico, non risparmia nessuno, neanche sé stesso. Non rinuncia alle ammissioni di colpa, riflette sull’abbandono e sull’essere abbandonato. Si autocita con intelligenza, gioca col suo cinema. Ridendo, sfreccia su un monopattino elettrico in notturna attraverso Piazza Mazzini a Roma, come se fossimo ancora in Caro diario. Critica le scarpe di una sua collaboratrice, sostenendo che i sabot sono una vergogna (ve lo ricordate Bianca?). Vuole portare sullo schermo la vicenda di un nuotatore, e strizza l’occhio alle piscine di Palombella rossa.
In più si sente l’eco di Aprile. Nel film del 1998 voleva realizzare un’opera politica, per poi momentaneamente abbandonarla e dedicarsi a un musical. In Aprile attaccava Michael Mann, mentre qui elogia Marlon Brando in La caccia di Arthur Penn. Il tema di Il sol dell’avvenire lo si intuisce già dal titolo, e a tratti si canta e si balla. Già citato nella canzone partigiana Fischia il vento (“a conquistar la rossa primavera, dove sorge il sol dell’avvenir”), era il simbolo di un socialismo che avrebbe dovuto illuminare il futuro.
Moretti presta il volto a un cineasta nel pieno delle riprese. Il suo protagonista è un uomo iscritto al Partito Comunista Italiano (PCI), un giornalista che scrive per L’Unità. Si schianta contro la fine di un sogno, di un ideale. La sua esistenza rischia di non avere più senso, il disincanto prende il sopravvento. Intanto Moretti attraversa una situazione famigliare complessa, tra i contrasti con la moglie e gli amori maturi della figlia. È interessante vedere come a pochi mesi di distanza la macchina da presa si concentri su L’Unità. Era successo in Il signore delle formiche di Gianni Amelio, quando si processava l’omosessualità negli anni Sessanta.
In Il sol dell’avvenire Moretti pone una domanda chiave: come si può raccontare il contemporaneo? Come si può cogliere lo spirito dell’Italia senza tradirla? Non è più tempo per gli intellettuali. Come si vede in una sequenza, le giovani leve si nutrono di immagini riciclate, si accontentano senza inventare. Un giovane regista deve girare l’ultima scena del suo film, un colpo di pistola, un’esecuzione. Moretti ferma tutto, cerca di spiegare che servono un’etica e un’estetica al cinema. Ma nessuno lo ascolta. Si infiammano solo quando prova a telefonare a Martin Scorsese. Ci si ferma alla superficie, nessuno vuole approfondire l’essenza delle cose, sul set come nella politica. L’ideale riposa in pace, il Partito è un ricordo.
Resta l’amore? Neanche. La bella flirta con l’eroe, ma non è quello che vuole Moretti, e li rimprovera. Che cosa ha quindi senso? Forse la passione, la corsa disperata verso un obiettivo. Il desiderio è concludere il film, ma la produzione tentenna, e a un certo punto arriva anche un esilarante incontro con Netflix. Moretti descrive un disagio generazionale senza soluzione, il suo personaggio si muove in un universo che non riconosce, ponderando anche gesti estremi.
Il metacinema, come in Mia madre, è la psicanalisi perfetta per scomporre l’oggi. Questa volta si aggiungono note felliniane, come il circo e la parata, già utilizzata anche in Tre piani. Ma se Tre piani somigliava a un addio, questo è solo un arrivederci. È un commiato dai collaboratori che furono, da un comunismo che ha fallito. È un grido di libertà dalle regole, dalle sbarre imposte dal sistema. È un saluto a una giovinezza che fu, è una presa di coscienza alla Schnitzler, ma con un vigore e una forza non comuni. Il sol dell’avvenire è il Moretti che è stato, è il presente, ma detta anche la linea per il domani. Il suo è un cinema ostinato, talvolta quieto, però pronto a scatenarsi, a definirsi eccentrico e ispido. Una voce fuori dal coro, in cui Moretti ricorda di non volere etichette, ballando con il surreale, alternando i generi, e guardando le incertezze all’orizzonte con un sorriso beffardo e una sola parola: “Azione!”. In concorso alla nuova edizione del Festival di Cannes.