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Il soffio dell'anima
Un Karate Kid romagnolo, con inevitabile dramma esistenziale alle spalle e fisioterapista sensitiva al posto dell'indimenticabile Maestro Miyagi. Il soffio dell'anima di Victor Rambaldi tenta, senza successo, il matrimonio impossibile tra il pedante melò all'italiana e i mitici kung fu movies degli anni '80, finendo risucchiato nel gorgo profondo del didascalico e del melenso. Tratta dal romanzo omonimo e autobiografico di Valentina Lippi Bruni, la storia del ragazzo in dialisi che si dedica alle arti marziali per non soccombere alla malattia e ritrovare l'amore per la vita, avrebbe potuto presentare qualche profilo di interesse in più. Sarebbe stata di sicuro un ottimo spunto per avventurarsi in un genere quasi inesplorato dalla nostra cinematografia, ma ancora molto amato dalle generazioni cresciute a pane e ninja. Il regista ha invece deciso di rendere i combattimenti il mero sfondo di una presunta ricerca interiore, che passa per flashback da telefilm e per improbabili viaggi astrali (salvo poi lasciarsi attrarre dall'iconografia delle arti marziali così come cristallizzata dai cartoni animati giapponesi, con tanto di sfera bluastra di energia à la Dragonball). Sospeso tra realismo e finzione, intrappolato in escamotage triti e ritriti - tipo i filtri bluastri usati per rappresentare ricordi e immagini oniriche - Il soffio dell'anima cade al tappeto dal primo all'ultimo round, lasciando dubbi anche riguardo al debutto sul grande schermo del suo protagonista, l'attore di soap Flavio Montrucchio.