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Il simpatizzante
“Cominciamo dal cinema”, viene chiesto al protagonista, detenuto in quello che presto scopriremo essere un campo di rieducazione in Vietnam, dopo la fine del conflitto con gli Stati Uniti. Il nostro è chiamato a redigere una confessione scritta, ed è proprio dalle sue parole che prende vita il racconto di cosa accadde a partire da quattro mesi prima della caduta di Saigon. Il punto di vista è quello di un giovane uomo, figlio di una vietnamita e un francese, che ha ricevuto un'educazione accademica negli Stati Uniti. Un uomo a metà tra due culture e due etnie, un essere a due facce, come lui stesso si definisce, condannato a vedere i problemi di entrambe le parti. Non ha neanche un nome: viene chiamato semplicemente "il capitano" (Hoa Xuande). Durante la guerra, il capitano milita nell'esercito del sud, ma è in realtà una spia dei rivoluzionari del nord.
Tratto dall'omonimo romanzo di Viet Thanh Nguyen, già vincitore nel 2016 del Premio Pulitzer per la fiction, Il simpatizzante è una miniserie in sette episodi creata da Park Chan-wook, che ne dirige anche i primi tre, e Don McKellar. Attesissima da chi ha amato il libro e dai numerosi fan del regista sudcoreano, la serie mira a inserire il tassello mancante nel grande puzzle che contiene tutte le narrazioni della guerra in Vietnam, specificando subito che soltanto in America si chiama così: in Vietnam è semplicemente la guerra americana, due nomi per la stessa guerra. Il tema del doppio è una delle colonne portanti di questa storia, a partire dall'identità del protagonista; la messa in scena duplica se stessa attraverso l'uso a tratti sorprendente di specchi e ogni tipo di superficie riflettente, che a volte rendono la realtà distorta, o ne rivelano porzioni altrimenti nascoste.
È un mondo violento e instabile quello che percorre il capitano, che si barcamena tra l'essere una spia leale e contemporaneamente il salvare sé stesso e i suoi cari, possibilmente senza commettere errori con gli americani. Sì, perché il capitano è talmente bravo che non soltanto si è insediato perfettamente, ma è diventato aiutante di campo del generale in carica a Saigon (Toan Le) e addirittura vive a casa sua, adottato quasi come un figlio dall'uomo e da sua moglie. I due hanno anche una figlia adolescente ribelle, Lana (l'esordiente Vy Le). Nessuno sospetta l'attività di spionaggio del capitano, neanche Claude (Robert Downey Jr), l'agente della CIA che l'ha addestrato fin da giovane. È talmente bravo, il capitano, che quando il generale è costretto ad abbandonare Saigon un attimo prima della sua caduta, viene obbligato a seguirlo fino a una brutta periferia di Los Angeles: sarà meglio tenerlo d'occhio, gli comunica il suo superiore. I giorni da spia del capitano non finiscono dunque con la fine della guerra. Anzi.
Il simpatizzante mescola la commedia al dramma, ma non è mai dramedy: la scelta autoriale sta nel farne due sezioni distinte, con scene e personaggi drammatici che si alternano al comico e al grottesco. Non mancano momenti in cui i due aspetti si fondono creando un contrasto interessante. Al centro del racconto c'è il capitano, personaggio dai mille volti e dai molti conflitti irrisolti. Vive in un contesto enorme ma porta con sé tutte le fragilità che gli pesano addosso, in particolare quelle sulla sua stessa identità in crisi. D'altronde è il peculiare protagonista di una serie tratta da un romanzo vietnamita, girata da un coreano che l'ha scritta con un attore canadese (e fra gli altri interpreti vede un'attrice canadese di origine coreana - Sandra Oh, sempre fantastica).
Il capitano può dire tutto e il suo contrario con un sorriso accattivante che conquista chiunque ovunque. Di lui sappiamo che è una grande spia, e il rapporto col generale lo dimostra. Tuttavia quando lo vediamo all'opera nella parte americana della sua missione risulta impacciato, sembra che ogni sua azione sia improvvisata, e questo non ce lo aspettiamo. Benché funzionale, il personaggio è la parodia di una spia - la sua goffaggine lo fa assomigliare al primo Ripley della serie di romanzi di Patricia Highsmith, e ancora di più alla versione televisiva del personaggio, scritta da Steven Zaillian e incarnata da Andrew Scott. Il capitano è orfano di madre e non è mai stato riconosciuto dal padre, ma solo non è. Con lui ci sono i suoi "fratelli di sangue", gli amici d'infanzia Bon (Fred Nguyen Khan) e Man (Duy Nguyễn). Anche loro, scopriremo, sono divisi sull'ideologia: il trio non è così compatto.
Oltre a raccontare la storia della guerra vista "dall'altra parte" c'è la volontà di fare anche una critica all'american way of life. E cosa c'è di più americano del cinema? Nel primo episodio, in una sala di Saigon in cui stanno smontando Emmanuelle e montando Il giustiziere della notte, il nostro assiste seduto in platea a un interrogatorio di una spia come lui. È soltanto uno spettatore, ma potrebbe facilmente finire al suo posto, sul proscenio a subire torture illuminato da un proiettore. Qui è fin troppo trasparente il tentativo di un ragionamento sul rapporto spettacolo-violenza, inevitabile in una serie di questo tipo; ragionamento che però rimane poco risolto, una provocazione lanciata con sfacciataggine ma senza un obiettivo preciso. Ma il cinema, in senso più lato, è anche uno degli strumenti di propaganda, utilizzato da sempre per diffondere e auspicabilmente imporre le proprie idee, sia dai regimi autoritari, sia dai democratici Stati Uniti.
Ci sono immagini che tormentano il capitano e che ciclicamente tornano come un infinito loop: un uovo sodo che rotola sotto una mano, l'emoticon pubblicitaria di una catena di fast food. E poi, ancora, il cinema che torna sotto forma di pellicola rovinata che scorre nel proiettore e apre i titoli di testa di ogni puntata. Le immagini che ritornano e si rincorrono implacabilmente e inaspettatamente sono un po' il marchio di fabbrica dello stile di Park Chan-wook, che riprende e moltiplica certi stilemi del primo Scorsese (pensiamo ai dettagli esasperati di Taxi Driver su pistole, bicchieri d'acqua, frammenti di carrozzeria) per mettere in scena in maniera espressionista il punto di vista ossessivo del protagonista. E se qui non siamo ai barocchismi granulosi e ipersaturi di Old Boy (anche perché non tutte le puntate sono dirette da Park, ci sono pure Fernando Meirelles e Marc Munden), c'è comunque un distinto sapore seventies, quasi exploitation, che sembra dire quanto l'intera operazione bellica statunitense assomigli a uno spettacolo tanto costoso e stravagante quanto terrificante e disumano. Il protagonista finirà anche sul set di un film americano come consulente culturale per le attrici e gli attori vietnamiti, un non troppo velato omaggio-parodia all'impresa di Apocalypse Now, un apologo antimilitarista girato però impiegando lo stesso sforzo sproporzionato e distruttivo riversato nel conflitto vietnamita.
Questo paradosso sembra informare direttamente la satira de Il simpatizzante, che però dalla sua non ha né la fiammeggiante sinuosità sintattica del cinema di Francis Ford Coppola, né il miracoloso equilibrio fra tragedia e sbruffoneria con cui Park ci aveva tenuto sul filo del rasoio con Old Boy. Insomma, la serie è ambiziosa, complessa, contraddittoria, a volte melodiosa, a volte stonata, immersa in un grottesco che, quando diverte, non riesce a strappare un sorriso, ma soltanto una smorfia, e quando cerca la durezza del realismo è efficace ma spesso ridondante – si prenda ad esempio la notevole sequenza della fuga in areo, fra le bombe che esplodono sulla pista. Non c'è spazio per qualcosa di realmente nuovo, e a volte l'operazione suona un po' polverosa, per esempio negli echi satirico-goliardici della debordante performance di Robert Downey Jr. – quando compare lui in scena pare di assistere a uno strampalato omaggio al Dottor Stranamore. Eppure, funziona.
"Cominciamo dal cinema", ma finiamo con la TV. Cos'è, dunque, Il simpatizzante nel panorama dell'offerta streaming contemporanea? È l'ennesimo tentativo di fare "streaming d'autore", trasferendo cioè (almeno parzialmente) la visione di un regista cinematografico sul piccolo schermo, tentando di mantenere intatta la sua voce pur adattando la visione alle diverse esigenze del mezzo? Sì, almeno in parte. Un po' come il Copenhagen Cowboy di Nicolas Winding Refn, l'esperimento riesce solo parzialmente, da un lato annaspando alla ricerca di un nuovo equilibrio espressivo all'interno del contenitore seriale, dall'altro appropriandosi efficacemente del ritmo imposto dal mezzo nell'imporre schemi narrativi e realizzativi – anche se qui la produzione è Sky-HBO, che generalmente si mostrano meno implacabili di altri. La chiave, comunque, è la serialità che, da spettatori, conviene sempre di meno affrontare come se l'opera fosse un film di 420 minuti in sette parti realizzato da un amato regista coreano, ma è invece meglio fruire come un adattamento televisivo di un romanzo di successo, a cui applicare le prospettive da politique des auteurs lascia un po' il tempo che trova. D'altra parte, con buona pace delle paturnie di Nanni Moretti e tanto per inserirci nell'atmosfera paradossale e satirica de Il simpatizzante, il cinema di Park Chan-wook è già naturalmente pieno di momenti "what-the-fuck" che sembrano fatti a posta per la nuova serialità.
Manuela Pinetti