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Che la Democrazia Cristiana non potesse tutto, e forse nemmeno la Chiesa, pardon, la sacrestia, lo postula uno che non si direbbe, l’ottantenne Pupi Avati. Tornando al genere che ne cullò gli esordi, l’horror a voltaggio gotico dunque sacrale, il regista bolognese inquadra il grande rimosso contemporaneo, il male, e non teme, anzi, cerca di mettersi allo specchio: il diavolo probabilmente.
Lungi dal determinismo, affrancato dal libero arbitrio, marca a uomo ma gioca a zona, giacché “il diavolo è chiunque e ovunque”. In zone a lui conosciute tanto quanto a Igor il Russo, le Valli di Comacchio ed Emilia involuta, insidia apparenze e istilla dubbi, apparecchiando infanticidi, scomodando ministeri degasperiani, frugando superstizioni e… affinando canini.
Quel che era vecchio è nuovo, anzi, è lo stesso, credulità e bigottismo per primi: Il Signor Diavolo dà del lei allo spettatore non (solo) per marcare un’aristocratica distanza, ma per segnalare la mancanza tra quel che pensiamo e quel che dovremmo, tra quel che siamo e quel che potremmo, nei riguardi del male e del nostro stare al mondo.
Un ispettore non eccelso cercherà di sincerarsi, tutti gli altri di ingarbugliare e imbrogliare, Avati di ritrovarsi, dopo una non gratificante parentesi televisiva. Con gli aviti Lino Capolicchio, Gianni Cavina, Alessandro Haber e Massimo Bonetti, oltre che Gabriele Lo Giudice, Filippo Franchini e Andrea Roncato, si ritorna là dove le case hanno finestre che ridono e le notabili – Chiara Caselli, brava – le calze smagliate: la Balena Bianca impera, i religiosi non si toccano, i libri – il suo omonimo del 2018 – finiscono diversamente.
Sergio Stivaletti agli effetti, Amedeo Tommasi alle musiche e un déjà-vu che dribblando il vintage sa divenire scomoda inattualità, Il Signor Diavolo fa di necessità virtù, e ancor più il contrario: la forfora sulle giacche, le fronti imperlate, i volti sbranati, il verosimile è continuamente strattonato, ma a uscirne malconce sono le nostre certezze. Il diavolo certamente.