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Il seme della discordia
Ultimo degli italiani, penultimo film in concorso, Il seme della discordia presentava diversi elementi di interesse. C'era la curiosità di ri-vedere all'opera Pappi Corsicato, sette anni dopo il suo ultimo Chimera. La voglia di scoprire i misteri montati (ad arte?) attorno al film, di cui si sapeva poco o nulla, con tanto di proiezione per la stampa saltata ieri "per motivi tecnici". C'era infine l'attesa per questo strano italiano in gara, il vero outsider del gruppo, tra i quattro il nome con meno credenziali autoriali dalla sua: alcuni buoni film (su tutti Libera e I buchi neri), un paragone azzardato (Almodovar), nessuna vera zampata. Il seme della discordia non sposta nessuna di queste considerazioni. Riadattando (l'aveva già fatto Rohmer 30 anni fa, ma con ben altre premesse ed esiti) La marchesa von O di Heinrich Von Kleist, il regista napoletano tenta un'operazione duplice: raccontare alcune dinamiche affettive (di coppia, parentali, amicali) costruendo una commedia di corpi e sguardi al femminile. Lavorare sulla confezione innestandovi memorie e pulsioni cinefile con una messa in scena pensata come un piccolo carillon d'immagini già viste, e battute già ascoltate. La trama è esile: una giovane e avvenente donna (Caterina Morino) con il tarlo per gli affari, resta incinta ma il marito (Alessandro Gassman), un rappresentante di fertilizzanti, è guarda caso sterile...Il cinema di Corsicato conferma di giocare su un piano diverso da quello narrativo. La battuta e l'equivoco vengono rimpiazzate dai continui deja-vu audiovisivi (da Via col vento a Sette spose per sette fratelli, passando addirittura per La corazzata Potemkin) che ricollocate in un contesto diverso da quello originale vorrebbero provocare effetti comici e stranianti. Così è in parte. Il citazionismo post-moderno di Corsicato (che omaggia anche il re delle citazioni, il Tarantino di Kill Bill) è troppo meccanico e gratuito per divertire davvero, e l'operazione di riciclaggio rimanda più alla saturazione d'immaginario che a una reale intenzione critica . Anche così, il film, oltre che per le grazie della Molino, si fa apprezzare per un insolito miscuglio di estetica kitsch, sequenze d'autore (vedi l'incipit), musichiere sentimental-popolare anni '60 e gusto per il pecoreccio. Un divertissement fine a se stesso, veloce e leggero, che nulla aggiunge e nulla toglie allo stato del cinema. A lasciare perplessi non è tanto Corsicato però, ma la Mostra che l'ha voluto in Concorso. Questa sì, seminando discordia.