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Il ritorno di Mary Poppins
Un anziano ammiraglio spara una salva di cannone dal tetto di casa sua, tutti i giorni, alla stessa ora. Ormai l’età avanza, e il colpo parte cinque minuti prima che il Big Ben si metta a suonare. Lui è sempre in anticipo, o forse vive ancora nel passato. Ha un animo nostalgico, per quando era un giovane capitano che dettava legge. Ma in qualche modo resta un punto di riferimento per gli abitanti della sua via. Capelli bianchi, mostrine ben in vista, è la metafora della Disney di oggi.
Sguardo ai grandi classici, alla costante innovazione. Vive del suo immaginario: rivisita i cartoni animati trasformandoli in live action, propone un sequel a ben cinquantaquattro anni di distanza: Il ritorno di Mary Poppins. In fondo tutto il film è un ritorno, all’epoca in cui 101 dalmata scatenavano l’inferno per evitare un triste destino o a quando la leggenda narrava di una spada conficcata nella roccia.
Mary Poppins, 1964. La tata dei prodigi, venuta da lontano per salvare le famiglie in difficoltà. E anche nel 2018 l’antico adagio non cambia, ma questa volta ci si muove sul binario opposto. I bambini sono troppo “cresciuti”, devono riavvicinarsi alla gioia della fanciullezza. Non credono più nella magia dei sogni, si rifiutano di accettare l’impossibile.
Mary Poppins ritorna per liberare la fantasia, distruggere il giogo imposto dai ritmi frenetici, dalla difficoltà di (ri)scoprire l’altro. Così il mito trova una nuova linfa vitale, si aggiorna. La storia si sposta durante la Grande Depressione, con un richiamo alle crisi mondiali. Gli spazzacamini diventano lampionai, e il tip tap di Dick Van Dycke cede il passo alle evoluzioni moderne, ai volteggi sui pali della luce e non sui camini dei tetti. Tempi moderni.
Il regista Rob Marshall guarda agli anni Venti (quelli del fortunato Chicago) e dà fondo a tutto il suo spirito visionario. Mescola i disegni con le immagini “reali” (come nell’originale), gioca con il rapporto tra teatro e cinema, costruisce il suo palcoscenico proprio nel centro di Londra. Mette in scena coreografie frizzanti, spettacoli di varietà, numeri in bicicletta da capogiro. E Mary Poppins? È quella di sempre.
Non ha più il viso fatato di Julie Andrews, adesso si affida alla ben più severa Emily Blunt. La sua interpretazione è più vicina alla Poppins letteraria, quella inventata da P.L. Travers. Animo rigoroso, ma tenero. Permissivo, ma rigido, e qui si lascia andare anche a momenti autocelebrativi, godendosi il bagno di folla. Questa volta dovrà fronteggiare anche un “cattivone”, ma senza abbandonare i buoni sentimenti che hanno caratterizzato il primo capitolo. Non mancano i camei di rilievo, i momenti strappalacrime, la certezza dell’happy ending.
Ma qui non si vedono sequenze da antologia. La camminata notturna del Signor Banks verso la Banca d’Inghilterra aveva lasciato il segno. Una vita racchiusa in pochi passi, un cinema imponente, emozionale, in una Londra fumosa e scura. Ne Il ritorno di Mary Poppins la capitale è di color pastello. Fin dalle prime immagini punta sul buonumore, su una felicità che arriva da lontano. Atmosfera perfetta per le feste, le uscite con i bambini e le serate invernali davanti al camino.