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Per molti anni, si è pensato che il modo migliore per svecchiare il racconto televisivo in Italia fosse l’imitazione della serialità statunitense, non solo nelle strutture e nelle possibilità di narrazione, ma soprattutto nell’immaginario, come se bastasse usare parole, ambienti e modi di fare orecchiati dall’America per eguagliarne la potenza. Un po’ come Nando Moriconi di Un americano a Roma, che pensava che biascicare una sorta di inglese lo rendesse americano.
Il re, serie Sky in 8 episodi, sembra un po’ vittima di questo stesso malinteso: ideata e scritta da Stefano Bises, Peppe Fiore, Bernardo Pellegrini, Massimo Reale e Davide Serino per la regia di Giuseppe Gagliardi, racconta del carcere di San Michele, luogo apparentemente fuori dal mondo, retto come un regno da Bruno Testori (Luca Zingaretti), il direttore che governa il carcere in modo autocratico. Quando però il suo caro amico e comandante Iaccarino viene ucciso, il re si trova in pericolo, stretto tra le condizioni del carcere e le indagini condotte da un pubblico ministero (Anna Bonaiuto).
L’ambizione è quella di realizzare un dramma carcerario nero e violento che provi ad avvicinarsi a Oz, splendida serie HBO che tramutava le dinamiche di una prigione nella tragedia oscena di un inferno in Terra, oppure alle sfumature di Il profeta, il film di Jacques Audiard, ma sconta le troppe differenze tra modi di scrivere e dirigere e soprattutto tra mercati, pubblici, richieste della produzione. Per cui, la serie resta incerta e incompiuta soprattutto nel linguaggio scelto, nel modo in cui il racconto si dipana e l’opera viene messa in scena.
Da una parte c’è una realtà ben precisa del mondo del carcere, realtà spesso posta fuori dalle grazie dello Stato e in cui gli esseri umani sono lasciati soli alla propria etica e morale; dall’altra c’è, come si diceva sopra, un immaginario ben preciso legato al carcere, un immaginario che fa parte della cultura a stelle e strisce e che si è allargato a quei tratti di mondo le cui popolazioni sono multietniche.