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Florence Pugh e Anna O’Donnell in Il prodigio. Cr. Aidan Monaghan/Netflix © 2022
Il patto narrativo è quell’accordo implicito stipulato tra l’autore e lo spettatore, il cui fondamento essenziale consiste nella completa immedesimazione di quest’ultimo nella finzione narrativa escogitata. Una promessa solenne, atto di fede, che richiede la sospensione momentanea di incredulità, affinché ci si possa mettere a disposizione delle dinamiche scaturite dal racconto. Richiesta di fedeltà che Sebastián Lelio ci invita ad attuare per la visione de Il prodigio, thriller basato sul romanzo omonimo di Emma Donoghue (anche sceneggiatrice) e distribuito da Netflix.
È il 1862 e Lib Wright (Florence Pugh), una giovane infermiera inglese, viene chiamata in un remoto villaggio dell’Irlanda, popolato da rigidi osservanti cattolici, per assistere ed indagare a qualcosa di inspiegabile e straordinariamente anomalo. Nel pieno delle conseguenze provocate dalla Grande Carestia del decennio precedente che produsse fame e miseria nera, l’undicenne Anna O’Donnell (Kila Lord Cassidy), digiuna da più di quattro mesi, con prodigiosa resistenza è in grado di mantenersi in salute con il solo nutrimento delle preghiere.
Assunta dall’austero consiglio cittadino del luogo, composto da rigorosi uomini convinti che nel modus operandi della ragazzina si nasconda l’enigma dell’eternità, la donna avrà il compito di sorvegliarla, annotando con imparzialità lo scorrere dei giorni di privazione, per scoprire finalmente se tale miracolo sia frutto di volontà divina oppure derivi da un meschino inganno. È la “manna dal cielo”, biblica sostanza vitale di cui Anna afferma di cibarsi o indiscriminata messinscena?
Nella più totale diffidenza e comprensibile sospettosità di una comunità accecata da rigido bigottismo e incapace a discernere oggettivamente, Lib si destreggerà tra le maglie più strette di un meccanismo incomprensibile al quale dovrà applicare i principi basilari del metodo scientifico per rendere il fenomeno affidabile. “Non siamo niente senza storie e dunque vi invitiamo a credere a questa”: così, con un voice over e le immagini di un set cinematografico in costruzione, il film svela immediatamente la sua intenzionalità. Credere o non credere? Imponendoci lealtà testuale, Lelio ci induce a riflettere su uno dei quesiti fondativi dell’esistenza: l’avere o no fede.
In modo analogo a ciascuno dei personaggi, i quali con acuta determinazione difendono strenuamente quella che ritengono essere la propria verità, plausibile, ricercata o ampiamente velleitaria, il pubblico è invitato ad abbandonare lo scetticismo inquisitivo e a fidarsi di un costrutto scenico poggiato sull’oscillazione tra finzione e veridicità. Tutta la storia, infatti, si muove su questa fluttuazione tra vero o falso, tra “dentro e fuori”, trasformando chi guarda in quell’uccellino raffigurato nel taumatropio, passatempo ottico del cinema delle origini regalato ad Anna, che in successione lo rappresenta in gabbia o libero di volare. Inizialmente coinvolti, guidati nella vicenda con lo sfondamento ripetuto della quarta parete, esortati a credere ed esercitare fede, veniamo alla fine posti al di fuori di tutto, per ritornare alla realtà, avallando con timida convinzione che questa in fondo lo sia.
Ma Il prodigio, oltre ad essere riflessione sul credo, è anche accurata rappresentazione della femminilità e minuzioso tassello della ricerca intrapresa da Lelio con le sue precedenti opere. Come i volti ribelli di Marina de Una donna fantastica o di Ronit in Disobedience, la volitiva Lib tenta di riaffermare il volere umano cercando di spezzare le catene del cieco fanatismo religioso artefice, insieme ad una certa povertà intellettuale, del consolidamento di granitiche credenze apparentemente indispensabili per liberare l’anima dall’inferno. Condotta che la porterà a scontrarsi con l’abnegazione e il serrato convincimento di dover per forza intraprendere unicamente una sola via, perché giusta e possibile.
Tipologie di femminilità duellanti messe a confronto, tra rigidità spirituale e scientifica coscienza, e dal cui conflitto emergono diversificate modalità di essere donna, madre e figlia. Un piccolo mondo antico, notevolmente costruito dalla corrosiva raffinatezza fotografica di Ari Wagner (già candidato agli Oscar per Il potere del cane) e da una recitazione convincente, trasudante di ataviche credenze popolari, costante indigenza ed obbligato a soggiacere alle brutture di un universo “troppo affamato”.