Prodotto da Tarak Ben Ammar e diretto da Jean-Jacques Annaud, Il principe del deserto sta nella terra di mezzo tra Hidalgo e Lawrence d'Arabia, con più di qualche metro a favore del primo. Inizi del XX secolo, due capitribù si affrontano per una striscia di terra, la Yellow Belt: Nassib (Antonio Banderas) ottiene i due figli del rivale Amar (Mark Strong) quale pegno di tregua. 15 anni più tardi, arrivano gli americani alla ricerca dell'oro nero (vedi titolo originale: Black Gold): sotto la Yellow Belt ci sono milioni di barili,  Nassib dà il placet alle trivellazioni, e la guerra con Amar può riaccendersi, complice il figlio di questi, il principe Auda (Tahar “Il profeta” Rahim), e la figlia di Nassib, la principessa Lallah (Freida Pinto), convolati a coatte nozze.
Tratto da La sete nera di Hans Ruesch, girato tra il co-produttore Qatar (4 settimane di riprese nel deserto) e la Tunisia in piena Rivoluzione dei Gelsomini (nessuna ripercussione) con 40 milioni di dollari di budget, il kolossal di Annaud pone l'accento sulle tradizioni, l'onore, la famiglia e i clan, piuttosto che l'oro nero e i suoi derivati: dopo Sette anni in Tibet, dunque, "Tre decenni e rotti in Arabia", con tutte le facilitazioni spettacolari del caso, l'omogeneizzazione per il palato globale - a partire dal cast: protagonisti da Spagna, UK, Francia e India – e quel formato strenna buono alla causa ideologica di Ammar.
Ancor più se nero, non è tutto oro quel che luccica. Se il Qatar incassa il suo “principesco” biglietto da visita, gli attori sono in chiaroscuro: Strong conferma essere il meglio antagonista ultimo scorso, Banderas  rimastica Zorro, Rahim è meno “profetico” e la Pinto una disutile bambolina. Sintomatiche, poi, le musiche epiche affidate al premio Oscar James Horner, con il qatariota Fahad Al Kubaisi a prestare l'ugola: sostanza e gusto globale con qualche innesto a denominazione d'origine controllata, e vale per l'intero film. Così è se vi pare: Arabia for dummies o magniloquente divulgazione?