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Il primo giorno della mia vita (Credits: Maria Marin)
Napoleone motivava tutti per mestiere, ma con sé stesso non ci riusciva più. Arianna aveva perso la figlia e quindi la voglia di vivere. Emilia, eterna seconda, per non fare più gare di ginnastica artistica si era seduta su una sedia a rotelle. Il piccolo Daniele, youtuber sovrappeso, era nauseato da genitori-sfruttatori e compagni-bulli. Ognuno ha avuto il suo motivo per suicidarsi. Un individuo misterioso (segnato UOMO in sceneggiatura) gliene darà un altro per tornare indietro e scegliere ancora tra la vita e la morte.
Paolo Genovese, fallita la coproduzione americana del film, gira a Roma -in pieno lockdown- il suo omonimo romanzo Il primo giorno della mia vita (Einaudi, 2018), ambientato tra i grattacieli e le strade di New York.
Gli ingredienti sono gli stessi che hanno fatto le fortune in passato del regista romano. Un cast (anche tecnico e produttivo) stellare (qui Toni Servillo, Valerio Mastandrea, Margherita Buy e Sara Serraiocco) per un romanzo corale poggiato su un telaio narrativo collaudato: un inafferrabile demiurgo (via The Place) con poteri sovrannaturali che offre a perfetti sconosciuti (tra di loro e stavolta senza false apparenze) una possibilità di riscatto.
Storia edificante di impostazione paradossale e teleologia insospettabilmente cattolica, mostra con fierezza punt(at)e antifamiliste e l’ambizione di essere una tavola rotonda intorno alle ragioni del suicidio. Ma la drammaturgia, pregevole nelle premesse, non si scrolla di dosso mai il fantasma di Capra e non scava, né scuote i personaggi, ristagnando in un registro languoroso/melodrammatico che annacqua i conflitti e rende le sue creature -UOMO in testa- poco interessanti.
Nelle due ore abbondanti di narrazione, così, strette nella camicia di forza dei sette giorni scanditi da (ormai) improbabili dissolvenze retrò, si avvertono tutti i mesi (se non anni) di ritocchi a una storia ingessata perché troppo manducata.
Per di più Genovese, Casella e Aguilar sminuzzano i dialoghi (più ariosi e intonati di là) ora col bilancino, ora con l'accetta. I suicidi in differita così, razionalizzano, soppesano, stemperano, hanno già una consapevolezza postuma di un dolore che la storia vorrebbe ancora divorante. Più che viverlo lo declamano (Mastandrea in testa), più che attraversarlo lo descrivono (nonostante alcuni come Arianna riconoscano di averne bisogno).
Anche la Roma straniante e anonima della fotografia del fido Fabrizio Lucci è opacizzata da un senso di americanismo derivativo. Cambiando pelle troppo facilmente, più che uno scenario riconoscibile appare una matrioska di suggestioni (cinefile) poco amalgamate con la sua identità e soprattutto con le deambulazioni sospirose dei quattro.
Ne esce fuori una storia stentata che procede per spintarelle e sbalzi verso un finale comunque (questo sì) sorprendente.