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Il bullismo a misura di bambino. La regista Laura Wandel utilizza una cifra stilistica che una volta avrebbero detto essere di Ozu. Il maestro metteva la macchina da presa all’altezza dei più piccoli. Alcuni dicevano al livello del tatami, Goffredo Fofi ad “altezza di cane”. Lei la posiziona sugli occhi dei suoi protagonisti. Cattura i loro sguardi perduti, le espressioni che un po’ alla volta si spengono.
Gli adulti sono creature lontane, enormi, che fanno parte di un altro mondo. Se ne vedono le mani, si avvertono le presenze, ma restano ai margini. Dovrebbero intervenire, delineare le regole, ma non ci riescono. Lo scontro generazionale è selvaggio in Il patto del silenzio – Playground. Non sembra esserci dialogo, possibilità di redenzione. Ognuno è legato al suo universo. È il trionfo dell’incomunicabilità, del non tradire. Il patto del silenzio, appunto.
Si viene immersi in un war movie, dove le trincee sono i banchi di scuola. Il ritmo è serrato, lunghi piani sequenza non danno scampo ai comportamenti delle piccole vittime. Si perde l’innocenza, i carnefici sono i presunti angeli. Siamo oltre Il signore delle mosche, qui la discesa agli inferi è inesorabile.
Il talento di Wandel non è in discussione. Si conferma una delle migliori in attività in Belgio. Appartiene alla generazione di Lukas Dhont, a una new wave attenta ai sentimenti, ai rapporti tra gli esseri umani. Il suo film è affine proprio a Close di Dhont. Quest’ultimo racconta di due bambini legati da un’amicizia non comune. Arrivati a scuola, “accusati” di omosessualità, si allontanano, fino alla tragedia. Dhont nella regia è più rigoroso, Wandel ama osare. Ma il loro è un cinema speculare, simmetrico. È dal Belgio che arriva il monito per il futuro: l’incapacità di ascoltarsi, la frattura tra il passato e il presente.
Il patto del silenzio – Playground e Close mostrano come il domani sia a rischio. Il gesto estremo di Close potrebbe essere la naturale conclusione della vicenda narrata da Wandel. I colori sfumano in Il patto del silenzio, a dominare è la legge del più forte. A morire è il pensiero, sopraffatto dal pregiudizio, dalle regole che collassano per lasciar dominare il caos. È la cronaca di una sconfitta.
Wandel dimostra una personalità notevole, un coraggio innegabile. Si schiera dalla parte degli indifesi, affronta temi spinosi, con una propria cifra stilistica: una regia dinamica, feroce, al passo coi tempi. Non è un caso che al Festival di Cannes abbia trionfato nella sezione Un Certain Regard. Rifiuta i luoghi comuni: “Quando aiuti gli altri, le cose peggiorano”, sentiamo dire nel film. Non c’è spazio per il buonismo, l’attacco è al quieto vivere.
La famiglia collassa, la violenza arriva dall’interno. Il legame tra fratello e sorella è la salvezza o incarna la base di ogni brutalità? Difficile rispondere. Il patto del silenzio si interroga su interiorità e comportamenti, su oppressione, crescita della rabbia. E poi racchiude tutto in un’unica definizione come chiave di lettura. “Che cos’è il razzismo? I razzisti sono persone che pensano solo a loro stesse”. Non ci si ferma all’integrazione, al colore della pelle. Si tratta di qualcosa di più profondo, legato a leggi antiche, a un’umanità che ogni giorno rischia di perdersi. Vincitore dell’ultima edizione del Tertio Millennio Film Fest.