PHOTO
“Lo sai, sono dedito alla decadenza”. “Sto scrivendo un trattato di teologia solare”. “Io chiedo a te di farmi parlare di me”. “Dai, levami il banner dal numero”. “Sto finendo di pensare”. “In questi giorno sono in bancarotta, se mi facessi lavorare una settimana potrei pagarmi il debito al bar”. “Spero di non averti offeso con la mia semplicità disarmante”. “Ho un problema con i refusi. Non so se lo faccio per mantenere un legame con te”. “Sai, la pigrizia, l’ozio, Sant’Agostino…”.
È (anche) un rincorrersi di citazioni di culto, Il palazzo, evento speciale alle Giornate degli Autori, nuovo lavoro di Federica Di Giacomo che torna a Venezia a cinque anni dalla vittoria a Orizzonti con Liberami. La regista continua il proprio discorso all’interno del cinema del reale, individuando come protagonista del racconto una comunità che vive in un condominio romano con vista San Pietro.
Il proprietario, al pari di un mecenate rinascimentale, ha offerto asilo ad aspiranti artisti, filosofi da terrazzo, romantici flâneur, ambiziosi filmaker. Come Mauro, che da anni sta girando un film al quale partecipano tutti i condomini. Un romanzo corale e visionario, un po’ home movie e un po’ documentario sperimentale, un work in progress permanente per cui si vaneggia l’intervento del regista e montatore australiano Graeme Clifford (“Ci possiamo provare”).
A trionfare è Roma, ri-messa in scena attraverso la voce unica e frammentata di una collettività a cui basta una smorfia per volgere la tragedia in comicità. Rapsodia popolare quanto bohémien, Il palazzo è una commedia umana che pare aver introiettato chissà quanto consapevolmente la lezione dei maestri (da Monicelli a Pasolini passando per Moretti), riformulando un quotidiano eccentrico sia cogliendone limiti e velleità sia dimostrandovi attenzione e curiosità.
Ne viene fuori l’affresco di un mondo fuori dal tempo, decentrato rispetto alla contemporaneità nella misura in cui ne trascende le contingenze socio-economiche e le regole di una narrazione omologata (“Uno non si deve accanire con la storia”).
Quasi una cover più malinconica di certe commedie romane degli anni Cinquanta e Sessanta con personaggi che sognano di affrancarsi dalla normalità costituita per proiettarsi in situazioni svincolate dalle logiche borghesi.