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Negli ultimi anni, il cinema d’oltralpe si è occupato spesso di scrittori e mondo editoriale. Sarà perché, come dice a un certo punto l’editrice interpretata da Astrid Whettnall, “la Francia ha più scrittori che lettori”? Perché non conosce l’Italia, verrebbe da dire.
Dopo la coppia-ditta letteraria di Un amore sopra le righe e la ronde editorial-sentimentale di Il gioco delle coppie, Il mistero Henri Pick – tratto dal romanzo di David Foenkinos – intercetta almeno due sfere di questo universo sulla carta davvero interessanti.
La prima è il tema dello scrittore nascosto. No, niente a che vedere con Elena Ferrante (anche se l’indagine su chi sia, già al centro di inchieste giornalistiche, meriterebbe un film. Ma, diciamolo, in Italia ci sono più aspiranti cineasti che spettatori costanti).
Pizzaiolo ormai defunto, Henri Pick trionfa post mortem con il romanzo mai pubblicato in vita, trovato da una giovane editor nella bretone Biblioteca dei libri rifiutati. Durante la trasmissione televisiva che conduce, un critico letterario mette in dubbio l’autenticità del manoscritto.
Da qui scopriamo la seconda sfera: la questione critica. In un film fondato sulla ricerca della verità, la critica ne esce benissimo. Investendo le competenze filologiche, l’acume investigativo, la capacità di lettura e interpretazione dei testi, il protagonista si dimostra un segugio in grado di smontare le menzogne, eludere le reticenze, ricostruire la realtà.
Fabrice Luchini ne è il volto inevitabile, ancora una volta chiamato a rappresentare un intellettuale snob e annoiato e tuttavia disponibile a rinegoziare la disillusione di fronte a una nuova occasione di riscatto personale.
Mattatore di un certo tipo di commedia francese, perbene e borghese, incardinata sulla centralità della parola (Nella casa, Molière in bicicletta, La corte), l’ineccepibile Luchini è croce e delizia del film.
Se da una parte ne garantisce la credibilità, dall’altra ne mette in evidenza i limiti. Quando sbraita “questa epoca è ossessionata dalla forma!”, non possiamo non pensare a quanto Il mistero Henri Pick sia quasi un ozioso ricalco calligrafico di qualcosa che abbiamo visto troppe volte. O possiamo prevedere senza difficoltà.
Non si tratta dell’intreccio in sé, ma dell’incapacità di trasmettere curiosità, tensione, perfino un pizzico di thriller.
Sia per appassionarsi un po’ alla blanda detective story sia per percepire davvero che l’ossessione di Luchini è qualcosa di meno pretestuoso della “crociata per dimostrare che hai ragione” di cui viene accusato.
Il problema è che alla regia di Rémi Bezançon manca il carisma necessario. Una per tutte, si veda come spreca l’immagine spettrale di Hanna Schygulla, motore sentimentale del romanzo e personaggio chiave.