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Il mio nome è vendetta - Cr. Emanuela Scarpa / Netflix © 2022
Partiamo subito da una premessa: Alessandro Gassmann è bravo, assai. E lo stesso si può dire della coprotagonista, la diciannovenne Ginevra Francesconi, nonché del regista Cosimo Gomez, già distintosi nel panorama italiano, grazie anche al suo ultimo Io e Spotty, commedia un po’ horror sul fenomeno degli human pops. Giunto al suo terzo lungometraggio, senza alcun dubbio possiamo dire che Gomez è uno che ha una sua cifra stilistica, che piaccia o meno.
Arriviamo ora alla tesi: il revenge movie in piena regola, all’italiana, anche no. Prodotto da Iginio Straffi e Alessandro Usai per Colorado Film, lo sviluppo è ovviamente quello consueto del filone, particolarmente acclamato oltreoceano, ovvero l’eroe, in questo caso Gassmann nei panni di Santo, un ex sicario della criminalità organizzata, che intraprende una spedizione punitiva nei confronti di quelli che hanno ucciso o rapito i suoi cari.
Questa volta è accompagnato da sua figlia (Ginevra Francesconi), un’adolescente campionessa di hockey che, dopo aver visto uccisi barbaramente la madre e lo zio da alcuni criminali, deciderà di allearsi con suo padre per vendicarsi senza pietà.
Pura azione e tanta (troppa) violenza condiscono questa storia di feroce vendetta che ricalca in qualche modo Taken, film del 2008, diretto da Pierre Morel e sceneggiato da Luc Besson, con Liam Neeson. E proprio dal famoso attore britannico ha tratto ispirazione Gassmann per il suo personaggio e soprattutto per la sua performance (“ci somigliamo: abbiamo entrambi le gambe lunghe”, dice l’attore) frutto dell’osservazione degli storyboard disegnati dallo stesso Gomez, di una grande preparazione fisica e di tanti allenamenti con uno stuntman.
Il comando è “uccidere per non essere uccisi”. L’ambientazione tra le montagne in Trentino Alto Adige. Per il resto di trama c’è poco a parte cazzotti, combattimenti, inseguimenti, sparatorie all’ultimo sangue, tanta crudeltà e brutalità. Che altro dire? All’inizio del film si cita una frase tratta dal libro Il richiamo della foresta di Jack London: “Mostrare pietà era solo un segno di debolezza”. Ecco, talvolta però bisognerebbe mostrare un po’ di pietà per gli spettatori: il sequel no, per favore.